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Sabato 11 novembre sono stato a Montebello di Bertona, un piccolo paese dell’entroterra abruzzese alle pendici del Gran Sasso che ha ospitato la presentazione del libro I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia dell’antropologa culturale Anna Rizzo. Sono stato attirato dall’evento perché, cercando informazioni sull’autrice, ho scoperto che da anni segue, studia e racconta la riqualificazione di aree interne che ogni giorno rischiano di scomparire.

È sabato pomeriggio, e mi avvio di buon’ora. Arrivo con una mezz’oretta di anticipo, così da poter parcheggiare fuori dalla porta del paese e raggiungere a piedi il centro storico. Una volta lì, quasi mi perdo tra le stradine in salita incastonate tra le case, e mi inerpico sulle tre-quattro diverse tipologie di scalini (alti e dritti, bassi e allungati, piccoli e ravvicinati, lunghi e spianati) fino ad arrivare al luogo della presentazione, quello indicato sulla locandina dell’evento, che è un ex museo
trasformato in una biblioteca dai ragazzi e dalle ragazze che tengono vivo il paese con un’associazione che hanno chiamato “Contratto Sociale”.

Alcuni dei ragazzi e delle ragazze di Contratto Sociale

Entro subito, nonostante alcuni siano in attesa all’esterno, fumando e chiacchierando o sorseggiando una tisana calda – che si può reperire dentro. Entro perché, nonostante siano solo le quattro di pomeriggio, già sento la differenza tra il freddo della città – diluito e mitigato dalle masse di persone che si spostano continuamente e dai gas di scarico a regime continuo lungo le strade – e quello più schietto di un paesino in pietra sferzato dal vento pungente di novembre.

All’interno trovo un ambiente caldo e accogliente, con tre scaffali colmi di libri addossati a una parete, una ventina di sedie disposte a semicerchio, panche, tavoli, strumenti per caffè e tisane e due pareti tappezzate di cartelloni realizzati dai bambini del posto.

Mi accomodo. Su un tavolo adiacente alle due sedie dove presumo siederanno l’autrice e chi dialogherà con lei vedo già esposte alcune copie del libro. La copertina è bianca e riporta l’illustrazione del profilo classico di un paese, osservato a distanza nella sua composizione dal basso
verso l’alto con case, spigoli e tetti che culminano, in cima, in un’alta torre rettangolare.

Mentre osservo il disegno e rileggo il titolo, I paesi invisibili, penso che più che mai quest’anno, il centenario della nascita di Calvino, quel titolo richiami Le città invisibili, e mi chiedo, mentre le persone intorno a me cominciano a prender posto, come avrebbe raccontato i paesi e i borghi invisibili dell’entroterra italiano quel Marco Polo che nell’opera di Calvino disegna – prima a gesti e poi con brevi ma luminosi racconti – la geografia urbana e umana e metafisica delle città che ha visto e attraversato prima di tornare dall’imperatore Kublai Khan, che quelle città le possiede pur non avendole mai viste. E la prima cosa che mi viene in mente è che la condizione di Kublai Khan è incredibilmente simile a quella di una classe dirigente che “possiede” – perché ne decide le sorti – paesi di mille anime o meno, o ex grandi paesi in via di spopolamento che per molti di quelli che la classe dirigente la compongono sono mondi totalmente sconosciuti. E mi chiedo: come si può salvare qualcosa che non si conosce?

Poi la presentazione inizia, e gli argomenti che emergono sono diversi e tutti densi di significato: l’abbandono economico e politico a cui sono lasciate le realtà interne, la fuga a cui molti giovani si sentono costretti e le rinunce a cui quelli che decidono di tornare sono chiamati (devono fare a meno di servizi di base come l’assistenza sanitaria e il trasporto pubblico e rinunciare a percorrere strade praticabili e ad un’attività culturale viva e stimolante), e poi la finta soluzione del turismo speculativo e invadente (progetti come quelli in cui ricchi imprenditori hanno acquistato interi borghi per trasformarli in alberghi diffusi si sono spesso arenati o, quando hanno funzionato, non hanno fatto altro che accentuare la frattura tra il comfort e i servizi offerti ad una clientela del lusso e il comfort e i servizi assenti per i residenti), ma anche il radicato assetto patriarcale e maschilista (e di conseguenza misogino e omofobo) che governa la vita di molti paesi, le dinamiche di attrito interne dovute a invidie e gelosie (perché si sa sempre tutto di tutti) o al possesso di beni materiali come edifici e terreni; o, ancora, l’abuso della parola ”resilienza” per indicare i restanti come esempi di coraggio e virtuosismo anche quando si tratta di persone che, semplicemente, non hanno avuto i mezzi per andarsene. Insomma, vengono toccati tutti o quasi i (tanti) argomenti che l’antropologa tratta nel suo libro e che da anni studia sul campo vivendo a contatto con chi decide di restare ad abitare le piccole realtà (il progetto al quale si è maggiormente dedicata è legato ad un altro borgo abruzzese, Frattura di Scanno, un posto in cui Anna Rizzo è ormai di casa e che ha studiato interagendo direttamente con i paesani).

Quando poi, verso il finale, la moderatrice dell’evento chiede alla sala se ci sono domande o considerazioni, inaspettatamente si innesca un dibattito sulla condizione specifica di Montebello. Il pubblico si è immedesimato nelle problematiche sollevate tanto da prendere la parola per dire la sua. E così si parla delle differenze tra il prima e l’adesso, vengono evocati i ricordi di parenti e antenati e ci si interroga su una questione rilevante come quella della lingua dei paesi, il dialetto. E in quel momento, mentre le persone si alternano o si parlano addosso, capisco una cosa: che le narrazioni troppo indulgenti non servono a smuovere le coscienze.

Anna Rizzo durante la presentazione a Montebello di Bertona

Il libro di Anna Rizzo non è affatto indulgente con le popolazioni delle aree interne, perché non si limita a criticare ciò che manca e a dare colpe a chi i paesi li guarda da lontano e pretende di gestirli, ma critica e assegna le giuste responsabilità anche a chi i paesi li vive. Perché c’è sempre qualcosa in più che si può fare, o che si può fare meglio. E questo non essere indulgenti, ma anzi oggettivi e onesti, può sperare di mettere in moto qualcosa anche in quelle realtà in cui tutto è ancora troppo fermo.

Al contrario però, lì dove non c’è più nulla da fare, conviene prenderne atto, dirselo apertamente. Molti paesi moriranno, perché sono insalvabili, e chi deciderà di andarsene non può e non deve essere colpevolizzato. Non si può salvare tutto, si può salvare il salvabile. Ma già facendo questo, si potrebbe forse ricominciare a vivere quel che oggi risulta invivibile.

Il ritmo del dibattito comincia intanto una progressiva e ben calibrata frenata, finché il clima della sala atterra sulla diffusa soddisfazione dell’aver parlato, dell’essersi sfogati. E mentre la stanza si riempie del rumore delle sedie tirate indietro e un capannello di teste si affolla sul banchetto delle copie da acquistare, io ripenso a Calvino, e a quello che aveva scritto a proposito di Zenobia, una delle città invisibili: «È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati».

Mi dico che questa cosa vale anche per i paesi invisibili.

Anna Rizzo, antropologa che da anni studia e collabora con le piccole comunità delle cosiddette «aree interne» del paese, ci porta alla scoperta di questo arcipelago in gran parte sconosciuto. Il suo è un resoconto personale di queste attività ai margini, solitamente visibili sulle mappe solo se illuminate da una tragedia mediatica o dalle sirene romanticizzanti del turismo, e quasi mai raccontate in modo onesto e senza facili nostalgismi: da Riace a Gibellina, da Cavallerizzo a Frattura di Scanno, Anna Rizzo affronta le problematiche legate allo spopolamento e allo stato di abbandono di edifici e infrastrutture, interroga i cittadini sui loro bisogni, sulle loro paure e sulle strategie di adattamento che hanno individuato, ragiona attorno alle motivazioni di chi è rimasto e di chi se n’è andato.

[Sinossi tratta da I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, Il Saggiatore, Milano 2022]

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