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A cura di Tommaso Bassi

Da quando esistono le città è sempre esistita qualche forma di competizione per ottenere maggiore influenza, ricchezza o prestigio rispetto alle concorrenti. Nell’epoca post-industriale, questa gara tra metropoli ha assunto connotati inediti, spianando la strada ad un nuovo paradigma in cui lo storytelling diventa fondamentale per accaparrarsi risorse ed investimenti. In quest’ottica, uno degli obiettivi principali delle governance locali è quello di costruire un’identità riconoscibile per la città che amministrano. Esattamente come succede per un’azienda, le città, in base ai “clienti” che vogliono attirare, si definiranno di volta in volta green, aperte, inclusive, centrali, connesse, vibranti, multiculturali. Per dare efficacia a questo racconto, è necessario attingere dal ventaglio di tecniche che la pubblicità utilizza da decenni per creare bisogni ed aspettative nelle popolazioni. E’ quindi fondamentale produrre loghi, immagini, slogan che corroborino questa narrazione: I Love NY, I Amsterdam, Be Berlin.

Le grandi metropoli che hanno coniato questi slogan hanno fatto scuola, e sono la punta dell’iceberg di un percorso di autopromozione adottato in molte città contemporanee. Il caso della capitale olandese, tuttavia, merita un piccolo approfondimento: nei primi anni duemila la città stava accusando la competizione di altre capitali europee più capaci, in quel periodo, di attirare turisti. Quando l’agenzia di comunicazione Kesselkramer fu incaricata di ribrandizzare la città, puntò tutto sullo slogan, poi diventato vera e propria scultura urbana, IAmsterdam, dove I am è evidenziato in rosso. Ciò per porre enfasi sul fatto che chiunque attraversi la città, che sia un turista, uno studente o un’azienda, può sentirsi parte della capitale. La campagna ha raggiunto il suo risultato e la scultura è rimasta fruibile per circa 14 anni, anni in cui è stata ampiamente fotografata e scalata dai migliaia di turisti che l’hanno visitata. Questa narrazione non è sopravvissuta però alla nuova narrazione abbracciata dalla città che ha visto in quel simbolo un messaggio legato al turismo di massa e all’ individualismo che mal si sposava con la nuova identità tollerante e solidale che gli amministratori locali hanno deciso di promuovere.

La tendenza a raccontare luoghi come fossero brand è, più o meno consapevolmente, il frutto degli spunti introdotti dal teorico di studi urbani Richard Florida. Nel 2002, con la pubblicazione del suo lavoro più discusso: L’Ascesa della Nuova Classe Creativa  l’autore parte da una semplice domanda: perché alcune città e regioni del mondo riescono ad attirare più investimenti di capitale e persone? Secondo Florida, ciò che fa prosperare le economie cittadine è la presenza della cosiddetta classe creativa, composta da individui che hanno investito nel loro capitale umano in termini di conoscenze e capacità e che operano nel settore finanziario, legale-amministrativo, tecnologico, informatico, accademico ma anche artistico e del design. Per attirare questi professionisti, secondo lui, le città devono impegnarsi per creare le giuste condizioni, come per esempio organizzare festival culturali, favorire la mobilità leggera, avere quartieri lgbtq+ friendly, avere un buon sistema di welfare, spazi pubblici ben curati e locali trendy (sì, dice proprio trendy).

La posizione di Florida, per quanto come abbiamo visto estremamente diffusa e impiegata da amministratori locali, è stata fortemente messa in discussione dal mondo accademico. Diverse ricerche hanno infatti prodotto evidenze che dimostrano come le ragioni della mobilità della “classe creativa” siano in realtà condizionate da traiettorie di vita personali o possibilità di lavoro piuttosto che dai fattori di richiamo identificati da Florida[1].

Le condizioni che hanno reso possibile abbracciare le idee dell’autore, tuttavia, sono da ritrovarsi in buona misura nel ridimensionamento degli stati in favore di una rinnovata centralità delle città. Con l’adozione di un modello di sviluppo neoliberista, dagli anni settanta circa ad oggi si è infatti assistito ad uno svuotamento di potere dello stato nazionale che si è riversato principalmente verso a) istituzioni sovranazionali (EU, Nato) 2), b) enti territoriali subnazionali (Regioni, Città Metropolitane) e b) il mercato privato. Il fluire di risorse verso le città ha quindi creato le condizioni per la creazione di un meccanismo di concorrenza senza esclusione di colpi.

Questa competizione si esplicita in diverse forme e una delle più interessanti[2], a mio avviso, è quella che si innesca per riuscire ad essere città ospitante di grandi eventi culturali e sportivi, come Expo, Capitale della Cultura, Football World Cup o le Olimpiadi.  Tendenzialmente non si partecipa a queste gare solo per amore della cultura o dello sport, bensì per l’ingente finanziamento connesso a questi eventi e l’indotto economico che ne consegue. Tuttavia, come Lucia Tozzi ha argomentato nella sua recente pubblicazione L’invenzione di Milano gli effetti di questi macro appuntamenti internazionali di rado migliorano la qualità di vita di chi abita le città interessate. Concentrandosi in particolare sul caso di Expo 2015 a Milano, la Tozzi si concentra su come un evento dipinto da tutti come la rinascita del capoluogo lombardo sia stato in realtà un acceleratore di tendenze che rendono oggi Milano una città sicuramente cool ma inaccessibile ai più.

L’esempio del capoluogo lombardo non è isolato e le stesse tendenze si sono riscontrate, con qualche decennio di anticipo, in metropoli come New York, Londra o Tokyo. La stessa Amsterdam, citata poco sopra, ha sicuramente raggiunto il suo obiettivo di essere attrattiva per turisti ma è oggi invivibile per i suoi stessi abitanti. Questo paradigma diffuso, caratterizzato appunto da una feroce competitività tra brand-città, pare essere incompatibile con una fruizione collettiva e democratica dei servizi che le città dovrebbero erogare, rendendo il contesto urbano inabitabile ai più e favorendo uno svuotamento delle stesse dai propri abitanti.

Bibliografia:

Florida R., L’Ascesa della Nuova Classe Creativa, Mondadori, 2003

Florida R., The New Urban Crisis: Gentrification, Housing Bubbles, Growing Inequality, and What We Can Do About it, Oneworld Publication, 2017

Hagemans I., Spierings B. et al, Crowd-pleasing, niche playing and gentrifying: Explaining the microgeographies of entrepreneur responses to increasing tourism in Amsterdam, Elsevier, 2023, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0160738323001007

Tozzi L., L’Invenzione di Milano: Culto della Comunicazione e Politiche Urbane, Cronopio, 2023

[1] Lo stesso autore, con il suo recente lavoro The New Urban Crisis ha ritrattato alcune delle sue tesi. . https://tribes.hypotheses.org/368

[2] Un meccanismo simile, seppur meno noto, è quello che si innesca per candidarsi all’apertura di nuovi headquarter di multinazionali come Amazon, qui un esempio (https://www.nytimes.com/2018/01/18/technology/amazon-finalists-headquarters.html) in cui si racconta come una città in Georgia si è detta disposta a cambiare il suo nome se Amazon avesse scelto di aprire da loro.

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