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L’autodistruzione è un compito che va perseguito

con la massima perizia di dettagli 

con costanza e coraggio senza lesinare energie.

Non è gesto violento gratuito 

ma sommessa richiesta di ospitalità

agli spigoli di mondo in cui nessuno più guarda. Disseminarsi

fino a diventare irriconoscibili

scialare pezzi di sé ovunque si riconosca 

l’incastro da millenni disegnato per accoglierli

perdere identità assimilando brandelli di universo.

Non chiedere più cosa resterà di sé:

divenire resto

inscindibile intransitabile

su cui nessuno avrà più da decidere. Errare 

non avendo che da accettare l’errore.

Questa poesia particolarmente rappresentativa, e infatti scelta per la quarta di copertina, è un inno all’assenza di barriere. L’autodistruzione è possibilità di esistenza, in armonia con un mondo costitutivamente disseminato, esploso e frantumato, proprio perché favorisce la convivenza e la compresenza di uomo e mondo: la contaminazione è un atto di amore tra gli uomini e gli elementi. 

Poiché la dispersione è sinonimo di accoglienza, ne consegue che la salvezza è anche una questione relazionale e comunicativa. Si tratta di essere in dialogo con il mondo e con gli altri. Spesso è proprio l’amore verso l’altro che permette di entrare in contatto con il cosmo, come quando il corpo del tu diventa una scheggia di universo, o una manifestazione dell’opera creatrice di dio. Così, le pieghe che si formano nella continuità dello spazio-tempo e le relazioni umane sono i mezzi attraverso cui il poeta tiene insieme gli opposti: grande e piccolo, caos e ordine, frammento e totalità, comunicazione e silenzio, presenza e assenza, precisione del particolare e vaghezza dell’insieme.

In un momento storico dove non si fa che erigere muri, cercare separazioni nette e indubitabili, definire identità granitiche, la poesia di Crosato ci parla, invece, di svalicamento e accettazione

Crosato ha gentilmente accettato di parlare con noi della raccolta.

 

I: Partiamo dal titolo: Strategie di salvezza. Da cosa o da chi ci dobbiamo salvare? Una delle immagini più insistite è quella della dispersione (con varianti come disfacimento, disgregazione, sfacelo): è dall’entropia che ci si deve salvare?

C: Io credo che quando si cerca salvezza la si cerchi da un male, da un dolore fisico, da una sofferenza intima, ma anche dalla morte. E che cos’è che ci può provocare dolore? Penso che ci siamo abituati a incastrare le nostre vite in identità rigide, a incastrare vite singolari e collettive in forme di vita che poi però finiscono per collidere, schiantarsi l’una contro l’altra. E credo che questo provochi sofferenza. Per questo credo che questa dispersione delle nostre identità possa essere anzi una forma di salvezza. C’è un brano che ho scelto per la 4.ª di copertina, che racconta di uno smembrarsi, di un rinunciare alla propria soggettività, alla propria identità. Ogni pezzo che abbandoniamo nel mondo trova in quel brano accoglienza in qualche frattura della realtà che ci circonda, trova come una nuova vita. Credo che questa sia un’immagine liberatoria, perché racconta di una salvezza dall’identità rigida che ci definisce.

Il nostro definirsi è incastrato in una forma che astrae una qualità e raggruppa chi ne è portatore. Per intenderci: da una parte ci sono i bianchi, dall’altra parte i neri, da una parte gli italiani, da una parte chi non è italiano. Credo che disgregando, almeno per esperimento, le nostre identità, possiamo riconoscerci per quello che siamo, a prescindere da queste caratteristiche che ci identificano e che ci oppongono. E credo che questo sia alla base dell’amore. Quando si ama qualcuno non lo si ama per una sua particolare caratteristica, ma non lo si ama nemmeno prescindendo dalle sue caratteristiche. Lo si ama così com’è, con tutte le sue peculiarità. Si ama il suo essere così, la sua unicità. Ecco, credo che qui ci sia la salvezza.

I: Una cosa che mi ha colpito leggendo è che c’è molto movimento (abbiamo parlato di dispersione, ma c’è anche la rotazione, la caduta…), eppure tutto sembra immobile, perché il movimento riguarda solo l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo. A noi rimane un bisogno di fuga, ma è possibile in un contesto del genere la fuga?

C: Io credo che l’effetto che tu hai notato sia dovuto al fatto che forse non c’è bisogno di fuggire per salvarci. Siamo soliti pensare la redenzione in senso escatologico, come la fine di un lungo percorso progressivo al compimento del quale siamo premiati con la salvezza, e quindi siamo soliti pensare alla salvezza come a qualche cosa di grande. Nei miei versi queste credenze sono descritte attraverso le misure astronomiche: balzi lunghi anni luce, viaggi tra le nebulose, l’infinitamente grande alternato all’infinitamente piccolo: misure altrettanto fuori dalla portata umana. Sforzi disumani proprio perché sforzi di superare i limiti dell’uomo. Però, sono sforzi che sono sempre in qualche modo destinati a fallire. Si sbatte contro la presa di coscienza che la salvezza, se deve venire, non verrà superando le trame in cui viviamo, ma anzi è alla portata del quotidiano.

Walter Benjamin diceva che ogni momento, anche il più banale, all’occhio attento può rivelarsi come la porta da cui fa ingresso nella storia la salvezza, però non bisogna trascurare nessun angolo della nostra quotidianità, specialmente i più denigrati, perché forse è proprio lì che si nasconde la salvezza. E il fatto che non siamo salvi forse dipende proprio dalla nostra riluttanza a guardare in quegli angoli così reconditi e polverosi. Credo che rivolgendoci al quotidiano nella sua concretezza, incaricandoci di ciò che ci circonda con cura, e incaricandoci della cura anche di ciò che la storia solitamente emargina, scopriamo che oltre alla volontà di potenza che si impone ci sono grandi riserve di potenza inespressa (inespressa perché fragile, perché vulnerabile), ma che proprio della fragilità e della vulnerabilità fa la chiave della propria forza salvifica. Proprio in ciò che c’è di più disperante si può nascondere la più grande speranza. Paolo di Tarso diceva che chi non ha speranza spesso trova la forza di farsi speranza per gli altri. E tutto questo, credo, è alla nostra portata, è a portata di mano ovunque, in qualsiasi momento a patto che osserviamo con attenzione e con cura.

I: In effetti molto spesso si vede che è una idea di salvezza stia in quelle che chiami proprio “pieghe”. Nelle pieghe, negli intervalli tra un attimo e l’altro, in questi luoghi un po’ liminali, se vogliamo.

C: Sì, più trascurati, nascosti, inaccessibili a chi guarda con una scala troppo grande o troppo piccola. E però sono proprio quei luoghi, quelle pieghe, che ci fanno essere ciò che siamo, che strutturano la nostra quotidianità e sono alla portata della nostra quotidianità.

I: I termini che ho richiamato all’inizio sono legati alle teorie di Democrito sugli atomi, e infatti Democrito è esplicitamente nominato. C’è però anche tanta scienza moderna, dalla termodinamica alla medicina. Possiamo parlare di una sorta di sincretismo scientifico

C: Sì. La scienza, specialmente quella moderna, tende a l’iper specializzazione, quindi mescolare varie discipline varie prospettive sul mondo spesso può sembrare incoerente. Io ho una formazione umanistica, però fin da giovanissimo ho coltivato una grande passione per la scienza. Quello che mi affascina della scienza di ogni tempo è la postura che l’essere umano adotta, la cura dei dettagli, la curiosità che fin da Adamo ed Eva confina con una pericolosa ubris, la capacità di riconoscere l’errore anzi di affermarlo come costitutivo dell’esperienza umana. Si dice che errare è umano e questo in entrambi i sensi della parola errare. È umano sbagliare, ma è umano anche errare nel senso dell’erranza, del vagare. L’essere umano si trova si ritrova in un orizzonte che lo comprende ma che non riesce mai ad abbracciare tutto intero, non è capace. Può però decidere se fissarsi dietro una maschera oppure se accettare il rischio di percorrere quell’orizzonte trascendentale di vagare con pochissimi strumenti per orientarsi. È un rischio molto grande perché è grande il pericolo di perdersi, però è, come dicevo prima, quanto di più umano possiamo tentare. C’è un’immagine platonica per me molto bella: l’umano è un essere bipede. A differenza del quadrupede che ha il volto rivolto verso terra e non può osservare altro che quel punto su cui sta brucando, e quindi è vincolato ai propri bisogni e alle proprie reazioni istintuali, l’umano può alzare lo sguardo, può includere ogni cosa del mondo in un orizzonte che trascende il qui e ora, ma non per annacquare il qui e ora ma anzi per dargli il vero significato, in una precaria interrelazione di altri fatti: per scoprire il qui e ora nel suo valore insostituibile, potenzialmente salvifico.

Ecco, la scienza, credo, è uno degli strumenti con cui l’umano ha cercato di orientarsi nella sua erranza senza riferimenti saldi. 

I: Come si concilia l’esattezza del sapere scientifico con la rarefazione che invece domina le poesie che parlano della realtà materiale e quotidiana?

C: La scienza è una bussola che l’essere umano ha appoggiato per orientarsi tra fenomeni che altrimenti sono terrificanti. Però a volte si rimane incastrati nella sua esattezza. A me capita, essendo affetto da un disturbo ossessivo compulsivo, di cercare di ridurre l’intera vita in schemi precisi, entro programmi ben stabiliti da cui è impossibile evadere. Anzi: si può evadere, ma solo attraverso ben precise vie di fuga già studiate con largo anticipo. E così ci si perde moltissimo della vita, della vita che è in permanenza, è erranza, e errore, e soprattutto è cura di sé, dell’altro, di ciò che nemmeno sa di necessitare cura. E questa cura non è esattezza.

Anzi, per riprendere un’immagine di Simone Weil: la cura funziona come una bilancia fuori tara.

Con la bilancia generalmente si dà 10 al forte e si dà 10 al fragile senza fare differenze. La bilancia della cura è fuori tara, ha i bracci diseguali. È lo strumento di una dea che è giusta, ma non perché è bendata, è giusta perché si è tolta la benda e vede che al piccolo va dato molto e al grande va chiesto di contribuire con ciò che ha. E credo che solo la virtù della cura possa guidare un coraggioso umile errare nella realtà.

I: Arriviamo ora alla questione centrale, filosofica, della raccolta: la parola, il dire. È questo il vero protagonista, tanto che si può dire che la realtà e le persone che abitano le poesie siano poco più di funzioni verbali. In questo libro le parole sono le cose: non a caso nella poesia iniziale atomi e suoni (alfabetici) sembrano essere la stessa cosa. Ma la parola ha tante sfaccettature: mi piacerebbe che ci parlassi meglio della funzione della parola.

C: Sì, tu dici che la parola ha una funzione da protagonista nella mia raccolta. Io in realtà mi sono convinto che la parola sia sopravvalutata. Ti voglio raccontare una roba che c’è in almeno tre brani di questa raccolta

Una persona a me molto cara è affetta da Alzheimer, e il morbo ha compromesso parte della sua abilità di esprimersi. Di solito facciamo eco ad Aristotele quando definiva l’uomo come animale dotato di parola. Io credo che questa persona a me cara non sia meno umana perché non ha più la sua dotazione verbale. Anzi, credo che l’essere umano sia, più che animale dotato di parola, un essere che giunge in un mondo abitato da simboli, nomi, significati che lui riceve dall’esterno.

Ciò che è davvero connaturato all’essere umano è un certo spaesamento nel suo vagabondare tra fatti e simboli nel continuo sforzo di edificarsi un mondo.

È lo spaesamento, l’erranza, quello che ci definisce. E in questo spaesamento l’intenzione di esprimersi, la nostra stessa tensione a dire, il nostro sbilanciarci verso l’altro.

Quindi, vorrei dire che essenziale nell’uomo non è tanto la parola, ma è il silenzio che accompagna lo spaesamento, è il silenzio che accoglie la sua intenzione più pura, a prescindere che questa intenzione sia coronata da successo comunicativo. Per questo, in un brano, mi rivolgo a questa persona a me cara e gli dico che il suo ritorno alla condizione dell’infante lo rende assieme umano e divino, perché nell’intenzione c’è in potenza tutto il linguaggio possibile.

Credo che questa sia la vera potenza, non tanto è la parola nel suo uso attuale.

I: Altro tema a cui si lega quello della parola è la religione. La parola di dio è creatrice, non a caso in ebraico si usa lo stesso termine per indicare la parola e il fatto. Il dio cristiano è una presenza massiccia nella raccolta (anche attraverso citazioni più o meno esplicite dalla Bibbia) ma è anche una figura volubile: quale ruolo ricopre la religione?

C: Sono molto interessato alla dimensione della spiritualità, più che della religione. La spiritualità che professo in questa raccolta non può che essere, stando anche alle cose che ti ho già detto, una spiritualità mondana, attenta a ciò che qui ora chiede cura. Sono certamente un lettore molto interessato ai Testi Sacri, ovviamente sono più ferrato sulla religione cristiana, che è quella che mi circonda, che ci circonda, ma credo che senza voler fare discorsi chiesasti il messaggio di Cristo sia stato largamente travisato. Una delle pochissime e semplici cose che Cristo ci ha detto è l’equivalenza di Dio e amore. Solitamente si dice che Dio è amore, nel senso che è capace di amore, ci ama. Certo, se crediamo in un Dio onnipotente, sarà capace anche di amare, credo che vada da sé.

Io credo che il significato sia un altro: io lo leggo come Dio è l‘amore, con l’articolo determinativo. Dio è un altro modo per chiamare l’amore, la comunione che ci lega in cui ci leghiamo con chi ci è prossimo e con chi sentiamo lontano. Io credo che Dio sia solo un’altra parola per dire l’amore che possiamo coltivare, e ci sono infiniti modi di amare, tanti quanti sono gli esseri umani che possiamo incontrare. 

E coerentemente con questo mi chiedo: che cos’è la vita eterna se non l’orizzonte di salvezza? Se non, oltre la morte del corpo biologico, la sopravvivenza indiretta di ciò che abbiamo seminato di buono nella loro vita? Ecco credo che Cristo non abbia detto altro che questa singola cosa declinata in infiniti modi, e quando parla di Dio come di un padre o di una madre sta parlando della portata generativa di cui l’amore è capace. Ecco, in questa raccolta, non direi che c’è religione, che è una parola così vicina etimologicamente a una catena che lega, che relega, però direi che c’è una spiritualità; una spiritualità panteista la cui nota predominante è quella dell’amore.

I: Come ho detto prima, alla funzione della parola è legata la possibilità di un ordine e la costruzione di un senso. Questo ci porta inevitabilmente a una domanda sulla forma. La poesia è una forma chiusa, implica per sua natura una misura, un ordine. Allo stesso tempo, a una lettura molto superficiale (leggi: non ho contato le sillabe e non sono capace di “sentire” il metro, quindi sono ben felice di essere smentita), mi è sembrato che i versi canonici siano in netta minoranza. Quale importanza ha dunque la metrica? Qual è il ruolo della forma?

C: Allora, della metrica a me non me ne frega proprio niente. Ma non per ozio, semplicemente perché io ho un’idea della poesia un po’ diversa dalla forma chiusa strutturata.

I: Qualche endecasillabo però l’ho trovato.

C: Allora sono molto fortunato perché è oltre le mie intenzioni. Ti dirò, io vedo la poesia come la massima apertura, come la coincidenza con quell’apertura trascendentale di cui ti ho parlato prima. Non sto parlando della poesia come arbitrio, ovviamente, come “mettiamo a capo e mettiamo le parole a casaccio”. Credo che il verso si differenzi rispetto alla proposizione prosastica perché il verso poetico non vuole, in primo luogo, comunicare qualche cosa, non vuole trasferire semplicemente un messaggio da un mittente a un destinatario. Il verso poetico, che può comunicare qualche cosa, in primo luogo però fa segno al fatto che linguaggio sta avendo luogo, che qualcuno ha preso la parola, che c’è l’intenzione di mettersi in comunicazione, di aprirsi verso qualcuno, di chiedergli accoglienza. E credo che questo sia rappresentato, per esempio dall’enjambement, che spezza la frase con lo spazio bianco della pagina.

Quello spazio bianco credo che sia la rappresentazione del silenzio, carico di intenzione, nel quale qualcuno ha preso la parola, si è fatto soggetto storico, si è rivolto a un potenziale altro soggetto, chiedendo accoglienza, comprensione, scambio simbolico. Io spesso gioco con l’utilizzo di parole desuete, spesso uso parole molto difficili. Lo stesso gioco lo faccio, per esempio, con la punteggiatura: in parte dei brani è una guida fedele alla lettura, in molti altri è del tutto assente. Così trasformo la poesia in un suono disarticolato che solo il contributo del lettore può articolare in un significato compiuto.

Questi due sono metodi che utilizzo per produrre un certo attrito. Ecco, non voglio che la lettura sia piana che la lettura sia semplice e pacifica come in un qualsiasi testo di prosa. Deve esserci un certo attrito perché solo attraverso questa ruvidezza il lettore entra davvero in contatto con l’evento del linguaggio, con il fatto che il linguaggio sta avendo luogo, cioè si rende conto che il linguaggio sta occupando il luogo dell’intenzione di comunicare.

E come ti dicevo prima il vero soggetto deve essere l’intenzione di esprimerci, non l’espressione in sé compiuta, perché è in quella intenzione che si incontra l’umano nel suo vero e più aperto errare spaesato: questo credo.

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