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a cura di Maria Oppo

Trento (Trentino Alto-Adige), Museo delle Scienze, marzo 2022. La nostra storia inizia in una domenica profumata di pioggia. Le luci scarlatte della Sala Preistoria enfatizzano elegantemente le curve degli scheletri dei dinosauri, mentre i passi dei visitatori scandiscono il passare dei secondi. Siamo al Museo delle Scienze, uno dei patrimoni culturali della città di Trento. Ciò che nessuno si aspetta, né gli spettatori né tantomeno quei reperti millenari, è ciò che sta per succedere all’ombra dello scheletro del brontosauro: una gara di poesia. Si può già notare infatti un microfono, delle sedie e una piccola folla di circa quaranta spettatori, se non contiamo gli scheletri. Un contrasto talmente surreale da sembrare un frame di un sogno particolarmente bizzarro. Il presentatore, un ragazzo con i baffi e i capelli lunghi fino alle spalle, prende la parola e annuncia i nomi dei poeti e delle poetesse che si sfideranno tra loro. Una di questi prende la parola e si posiziona con fare sicuro al centro della sala. I passanti si fermano, incuriositi, e prendono posto. Sta per iniziare lo spettacolo. La poetessa inizia a parlare.

Curinga (Calabria), scalinate della chiesa di Sant’Andrea, agosto 2022. Un gruppo di persone si è riunito nella piazza del Duomo, approfittando del vento fresco della sera. L’imponente facciata in stile classico della chiesa li sovrasta, immobile, e li guarda agitare i ventagli mentre il profumo dell’Autan funge da incenso per questa strana messa notturna. C’è gente di tutte le età e di tutti i generi. In cima alla scalinata spicca un microfono a collo d’oca, lo stesso che utilizza il prete per dire l’omelia. Un presentatore giovane, sorridente, che tutto ha fuorché l’aria dell’uomo di chiesa, sale le scale per fare un annuncio: sui gradini d’ingresso del Duomo si svolgerà una gara di poesia performativa. I poeti sono già pronti, mimetizzati tra la gente. Hanno tutti una grande luce negli occhi e sono euforici, forse un po’ ubriachi, assolutamente invincibili.

Segrate (Lombardia), McDonald’s di via Rivoltana, giugno 2023. L’area del parcheggio, da immersa che era nella solita calma al neon della notte, muta lentamente e diventa folla. Le persone arrivano poco a poco e occupano le sedie che qualcuno ha disposto in file ordinate, bevono, conversano di cose importanti.
Davanti a loro sta uno spazio vuoto e davanti a esso le persone aspettano. Nel fruscio della birra che viene versata nei bicchieri, nelle risate elettriche, nella calma di uno spazio di asfalto sovraffollato, è lì che sta l’attesa. Tra coloro che alimentano il vociare siedono in incognito sei persone che, ben presto, avranno gli occhi puntati addosso, ma per il momento no; per il momento occupano le sedie, bevono e conversano di cose importanti. Aspettano anche loro.
Stanotte ci sarà un poetry slam. Così c’è scritto sulla locandina. È una serata di poesia, dunque, ma non sembra tale: c’è un’allegria più diffusa del solito, una luce più forte.

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La poesia performativa è un tipo di poesia che si esegue per un pubblico. Prevede dunque almeno un poeta, che rappresenta sia l’autore che l’opera d’arte stessa, e uno o più spettatori.
L’aggettivo “performativa”, in un certo senso, risulta quasi inutile e superfluo dal momento che la poesia nasce come performance e si può dire che sia performance. La poesia delle origini, quella che per millenni viene considerata l’arte per eccellenza – tanto che i due termini vengono spesso usati come sinonimi – è intrinsecamente orale. Un’arte antica, pura, che porta in sé un’idea fortissima di primarietà: la poesia non richiede pennelli né materiali di alcun tipo, e se dovessimo spingerci a cercarne uno avrebbe le sembianze del poeta-performer stesso, il quale si fa artista e oggetto artistico insieme. Fu Hegel (ma tanti anche prima di lui, fino a scomodare Platone) a sottolineare quest’aspetto: la poesia non ha bisogno di nulla, è parola pura che diventa arte.

Un concetto, questo, che va a nozze con l’assunto di base delle avanguardie teatrali del secondo dopoguerra, come il Living Theatre o il “teatro povero” di Grotowski, ovvero: la barriera tra l’arte e la vita dev’essere abbattuta. Necessariamente. E per riportare l’arte alla sua vera essenza è importante tornare a pochi elementi fondamentali. Così che sia immediata e alla portata di tutti, esattamente come dovrebbe essere.
Da lì ebbe inizio un’epoca di sperimentazioni folli ed entusiasmanti: durante questi spettacoli venne eliminato il palco, poi il pubblico stesso, perfino i vestiti. Fu in questo contesto che, in quanto arte povera, il genere poetico andò incontro a un vero e proprio terremoto di cambiamenti che lo riportò nell’agorà, ovvero nei luoghi che in epoca ellenica l’avevano visto nascere: le strade, le piazze, le case dei privati.
Il palco, lo spazio fisico esce completamente dall’equazione e cessa di essere un vincolo per la performance, la quale ormai può compiersi ovunque. Insomma l’arte, e quindi la poesia, si ritrasferisce finalmente in contesti all’epoca considerati poco consoni, spazi collettivi dove è libera di essere tutto. Di esprimere uno dei suoi più grandi poteri: quello di collante e di aggregante sociale. Facendosi veicolo di rivoluzione.
E così è stato. Si è spesso visto – come nel caso del Cabudanne de sos poetas in Sardegna o della Stazione di Topolò in Friuli-Venezia Giulia – che le manifestazioni artistiche e i reading di poesia rappresentano uno strumento importante e prezioso, che consente a territori penalizzati di rifiorire. L’arte, infatti, si è sempre prestata perfettamente a creare reti sociali, e sono le reti sociali a mettere al centro i luoghi, che diventano così palcoscenici e assumono il ruolo di risorsa per la città. La scelta di localizzare le manifestazioni poetiche nei posti più marginali diventa quindi un’operazione, consapevole o meno, di riqualificazione territoriale e in quanto tale fortemente politica. Per usare le parole di Zigmunt Bauman, “è attorno ai luoghi che l’esperienza umana tende a formarsi e articolarsi” e dunque sono le persone, le comunità a restituire un significato ai posti. Là dove c’è una folla rispettosa, i luoghi sono destinati a fiorire.

Esiste una declinazione della poesia performativa che porta ancora oltre questo concetto. Si tratta della sua variante agonistica, ovvero il poetry slam.

Il poetry slam è una festa poetica. Oppure, per restituirne la definizione che ne dà Wikipedia, è “una competizione in cui i poeti recitano i loro versi, gareggiano fra loro e vengono valutati da una giuria composta da cinque elementi estratti a sorte tra il pubblico”.
Nato a Chicago negli anni ’80, il poetry slam piace sempre di più, cresce e si diffonde e fa il giro del mondo. Un paio di decenni dopo, nel 2002, arriva anche in Italia e per la precisione a Roma. È proprio in Italia che ha modo di offrire al mondo gli ultimi tre campioni mondiali alla Coupe du Monde du Poetry Slam di Parigi: Filippo Capobianco nel 2023, Lorenzo Maragoni nel 2022 e Giuliano Logos nel 2021. E sempre in Italia lo slam conosce una diffusione rapida e incontra reazioni via via più entusiaste. Le regole della gara, valide ovunque, sono le seguenti: solo testi propri, solo corpo e voce, tre minuti di tempo. Ma manca un tassello importante. Chi volesse andare a vederne uno, o addirittura organizzarne, dove potrebbe farlo? In quale sede? Facile: tutte quelle che si vogliono.

Da Guida liquida al poetry slam di Dome Bulfaro:

I poeti performativi si sono allenati a riuscire, in qualunque luogo o contesto vengano chiamati, a esprimere teatralmente le proprie emozioni: sale da bowling, chiese, templi, sale da biliardo, sagre, treni pendolari, discoteche, quello che volete. La missione dello slam è liberarsi delle pastoie di come e dove la poesia debba essere presentata.

Il poetry slam esiste apposta, è strutturato per potersi svolgere ovunque. Ed è proprio in questo aspetto che rivela il suo peso politico-culturale. Il poetry slam per sua natura restituisce la poesia ai luoghi e alla gente, a tutta la gente. Rispetto agli spettacoli di poesia performativa non agonistici, infatti, lo slam risulta particolarmente popolare e inclusivo poiché fa del coinvolgimento dello spettatore il suo marchio di fabbrica. Il pubblico deve partecipare, deve essere coinvolto. Questo configura il poetry slam come una delle arti più aggregative e partecipative che esistano.

Da La risposta estetica nel poetry slam di Eleonora Fisco:

Il poetry slam mette statutariamente al centro dello spettacolo lo spettatore, che viene chiamato in causa per giudicare la performance. Al contrario di quanto avviene nella lettura privata e silenziosa, la verifica intersoggettiva dell’effetto e quindi del significato comunicato dalla performance dei testi è in questa sede sempre esplicita e immediata.

È dunque il pubblico stesso, e quindi la folla, a “fare” lo spettacolo e a riqualificare il luogo, non il poeta o un’elite ristretta di letterati. Sta qua una delle principali innovazioni del format: lo slammer – così si definiscono i poeti in gara – non sta in alto, non si mette in cattedra. Anche dal punto di vista fisico e spaziale, lo slammer non rimane nel backstage, separato dal pubblico come solitamente succede quando si assiste a uno spettacolo dal vivo, ma al termine della propria performance torna in mezzo agli spettatori – dove del resto si trovava fin dall’inizio – a godersi la situazione di convivialità. A bere e a mangiare insieme agli altri. Perché il pubblico è parte del palco, perché il concetto di base è che la poesia appartiene a tutte e a tutti.

Ancora Bulfaro, su questo tema:

Il poetry slam, nel suo essere un ritrovo di persone che cercano relazioni, parole e percorsi formativi reali, si impone come un movimento in grado di competere con la fascinazione della tecnologia e del mainstream, ripercorrendo strategie e tattiche dell’underground.

Il poetry slam in questo senso deve molto alla cultura underground, all’immaginario hip-hop. E come l’hip hop lo vediamo spesso anche in luoghi marginali, luoghi che vengono definiti “da riqualificare”: un museo, una chiesa, un parcheggio di periferia. Luoghi abbandonati. Centri urbani per cui spesso si spendono soldi e risorse in campagne di sensibilizzazione e in progetti di rigenerazione che non sempre portano risultati significativi.

E allora si potrebbe pensare di portarci la poesia, in quei luoghi. Provare a incentivare quelle manifestazioni artistiche che hanno dimostrato di fare del bene ai territori e chiedere che sia inserito in scaletta un poetry slam. Rinnovare gli spazi marginali con eventi culturalmente validi, facili da organizzare e non impattanti dal punto di vista ambientale. Commissionare ai collettivi di poetry slam, presenti su tutto il territorio e facilmente reperibili sui social media, eventi per rilanciare e riportare la gente in quei luoghi.
E tutto questo senza facili pregiudizi, senza cadere nel solito “ma questa non è vera poesia” – dal momento che la qualità dei testi risulta spesso il punto forte dei poetry slam, provare per credere! –  e senza accogliere il nuovo con diffidenza ma scegliendo piuttosto di vederci una risorsa. Così che la città e i cittadini stessi possano averne beneficio. Che vecchio e recente, patrimoni culturali e avanguardie artistiche, poesia lirica e nuovi linguaggi possano farsi del bene a vicenda e creare forme ogni volta diverse. Senza snaturarsi. Senza rinunciare a restituire alle persone le loro parti migliori.
E da quelle imparare a creare bellezza.

Come scrisse il compianto intellettuale Nanni Balestrini, il quale era stato anche uno slammer, in una delle sue ultime poesie, Istruzioni Preliminari (“Cosmogonia e altro”, 2018):

“Un altro mondo sta apparendo:

l’attacco va minuziosamente preparato

secondo una prospettiva rivoluzionaria.”

 

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