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di Vincenzo Montisano

È sempre stata sulle nostre teste, la sua città-libro; per un’eternità intera. E nessuno l’ha mai vista, c’è mai stato, l’ha mai letta.

In questi cunicoli sotterranei in cui ci trasciniamo, nessuno vede niente o distingue il vero dal falso o trova alternative plausibili all’angoscia, che è un peso costante al collo della nostra disperazione. Al passaggio delle lanterne con cui ci orientiamo, le gallerie si allargano e si restringono. La terra prende aria per poi, sfiniti, soffocarci di nuovo. Così, siamo: roditori in un polmone seppellito.

E che cos’è questo, vivere? Perché non ci stermina tutti?

Quaggiù, conduciamo esperimenti sulla creazione: i risultati fallimentari attestano l’unica qualità che ci contraddistingue. E cioè l’imperfezione, e cioè il marchio della rovina. Alcuni credono che questo costituisca una vergogna; l’inaccettabile condanna a una condizione di stenti. Ma io personalmente ho altri vangeli. Ché non siamo perfetti. Ché noi non siamo come lui, che tutto può e nulla dimentica. E se la sua città-libro è stata costruita nel solco primitivo del tempo, i nostri biechi, blandi, timidi tentativi sono portavoce di un’alternativa autentica che lui, nella sua perfezione, non potrà mai raggiungere. A questo, serviamo. A suscitare la sua invidia. Per questo, ci tiene in vita: all’unico scopo di circoscrivere, arginare la sua forma infinita.

Ieri, o ieri l’altro, Stax, uno di noi, ha scritto di un letto all’incrocio di due gallerie. Un letto, così, dal nulla. Al centro di quella che, secondo Stax, doveva essere la piazza di un borgo annottato a meridione. Col campanile, in alto, e sotto la chiesa sprangata. Le finestre delle comari serrate fino all’alba. La struttura in ferro del letto, i pomelli d’ottone, e le coperte tanto dure da trasformare i baci in sputi, le lenzuola in pelle. Dentro al letto un assassino emaciato di ritorno dal lavoro nei campi e una vecchia tenutaria di bordello, grassa, che vende fica per conto terzi.

E noi abbiamo fatto il possibile per aiutare Stax, la sua visione. Ci siamo affastellati gli uni sugli altri per ricreare il letto. Alcuni si sono spogliati e hanno usato gli stracci come lenzuola. Sei o dodici di noi sono saliti sulle spalle di altri sei o dodici di noi per simulare, con le proprie lanterne, i lampioni accesi sulla piazza. E poi Rox si è sdraiata sul letto fatto dai nostri corpi e ha interpretato la tenutaria. E Tesco, lo stesso, nel ruolo dell’assassino. Per amore della verosimiglianza ci siamo sforzati d’abbassarci al massimo grado di disumanità: non si può essere del tutto uomini per creare, ché il verosimile non è né questo né quello bensì una soglia tra mondi. E nonostante Tesco, l’assassino di ritorno dai campi, si fosse fatto spaccare la schiena da un altro giorno feriale; nonostante il prolasso vaginale di Rox, la tenutaria, che non elimina però la voglia di strofinarsi, accucciarsi, succhiare per una volta ancora prima di crepare di gotta o di sifilide; nonostante tutto, la nostra città, la nostra piccola, insignificante porzione di città, non ha in sé niente verosimile. Niente di letterario. Niente di minimamente paragonabile alla sua citta-libro.

E quando Tesco, nel letto, pensa al suo amore per Rox, allora pensa anche al mare che qui non esiste. Un amore, il suo, acido, sotterraneo, polveroso, proscritto dalla luce del sole. E l’assassino, secondo la visione di Stax, non dice alla tenutaria frasi del tipo: «Spegni la luce», perché non voglio vedere la tua pancia di lardo, rigonfia e marcia, ma dice: «Accendi il buio». Perché Stax, in fondo, è un sentimentale. E gli assassini di Stax sono imperfetti come tutte le altre nostre creazioni. Non uccidono, amano. E le tenutarie di Stax non vendono fica per conto terzi, ma cercano consolazione per la propria.

Io non so se credere a Stax quando dice che ha visto la sua città-libro. Di certo è l’unico tra noi ad essere riuscito a risalire la sola galleria che quaggiù si sviluppa in verticale anziché in orizzontale. Ma Stax parla della sua città-libro con una naturalezza sospetta, artefatta. Dice Stax che qui non avremo mai le targhe sulle strade che ci sono lì. Che non riusciremo mai a ricreare quell’intrico di filobus e quelle distese di cemento. Lì, dice Stax, esistono balistiche sentimentali perfette. Radiografie toraciche. Cancri naif. Punti di raccolta post catastrofe per i personaggi terremotati da spietati plot-twist. Concetti-cattedrale e aiuole di capitoli e di paragrafi che lui tiene bene in ordine. Lui sa la letteratura cos’è (?) e dove e come vanno posizionati i fiori. A che ora precisamente portarci a pisciare sopra l’ombra immaginaria d’un cane.

Stax dice cose e beve – distillati d’olio di motore. Ma una sera Stax ha detto: «È inutile spremerci affinché ciò che non è sembri autentico. Al contrario, dovremmo permettere all’assurdo di ratificare per poi distruggere ciò che esiste». La galleria si è richiusa sulle nostre teste. «Lui farebbe così» ha aggiunto Stax. Poi abbiamo smesso di respirare per qualche minuto.

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