A cura di Demetrio Marra
25 è il secondo libro di Bernardo Zannoni, dopo l’esordio I miei stupidi intenti (2021). Avrei potuto cominciare da un paragone dei due romanzi (usciti entrambi per Sellerio), ma – con Caparezza («il secondo album è / sempre il più difficile / nella carriera di un artista», Il secondo secondo me) – preferisco non farlo. Del resto, vorrei evitare di sovrapporre 25 a I miei stupidi intenti, anche perché mi tormenta il dubbio che siamo stati, forse, tutti (Campiello compreso) molto indulgenti, troppo entusiasti.
25 è un romanzo (breve) dalla trama tutto sommato lineare. Gerolamo è un ragazzo col talento della fotografia, disoccupato, senza genitori ma con una zia molto presente, il quale si trova ad affrontare una crisi personale e generazionale (o almeno questa è la pretesa) dopo aver assistito al tentativo di suicidio di uno dei suoi migliori amici. Da lì, una diffrazione: il romanzo si “divide” in una serie di peripezie che dovrebbero, a rigor di logica, partecipare alla costruzione di senso complessiva, ma sembrano appiccicate l’un l’altra con lo scotch di carta. Il coma di Tommy; la vita di zia Clotilde; la fuga del pappagallo di Barracus, Richard, e la sua sostituzione; la relazione di Amon; la ricerca del lavoro di Gero e le sue fantasie di famiglia nucleare; la relazione tra Martin e Betta, incinta; la clinica dei sogni Blue Pill.
Costruzione di senso che non avviene o che avviene nella sua assenza (e l’autore potrebbe dire che è una struttura che trasformi metaforicamente la mancanza di significato reale, ma ne dubito). Tutte le grandi svolte di trama arrivano senza né suspense, né sorpresa, e a parer mio servono a un obiettivo preciso: lasciare il protagonista da solo, alimentandolo nella sua talentuosa inettitudine (ma ci arrivo dopo). Clotilde muore mentre guarda le foto del nipote come se fosse una puntata di Gli occhi del cuore. Amon si azzuffa in un bar in una collina, diretto da tutt’altra parte, con le forze dell’ordine guardacaso subito appresso. Barracus decede dietro il bancone per la rabbia, liberando tutti i suoi clienti dalla tirannia. Martin è un’ombra almeno quanto Tommy, se non di più.
Una testa d’aglio triturata (tolta l’anima)
Posso dirlo? Lo dico: questi protagonisti inetti, cinici, soli e incapaci nelle relazioni, mi fanno bollire il sangue. Possiamo anche accampare le ragioni della poetica o della mimesi del reale, ma io vedo soltanto la pigrizia dello scrittore. È così semplice dipingere una figura assoluta, indipendente da ogni legame perché il romanzo è proprio quei legami, persino in negativo. L’incomunicabilità o è totale, sorta da un desiderio altrettanto radicale di comunicabilità (McCarthy, per esempio), oppure è uno stratagemma per faticare di meno. È una mia idiosincrasia, ma qui credo abbia basi solide. I personaggi, tutti – forse si salva solo zia Clotilde – sono completamente privi di anima (ed è strano, dalla penna di uno scrittore che era riuscito, credo, ad animare degli animali). Gero è goffo e sua zia pensa che sappia fare le foto, non sappiamo altro. La scena rivelatoria del suo talento per il lettore (alla cinema pop americano) è davvero sciatta. Siamo in uno studio dove Amon fa il modello fotografico (di lui si sa solo che è bello, appunto, e incapace di avere una relazione):
Gero rimase da solo nello studio. Le stufette elettriche emettevano un mormorio costante, e il loro calore era insopportabile. Si avvicinò alla macchina dell’uomo pelato, la prese in mano e la accese. Non gli interessavano le foto che aveva in memoria; piuttosto, lo incuriosiva il modello, non lo aveva mai maneggiato. Armeggiò con le manopole, cambiò un paio di impostazioni, senza pensarci più di tanto. Guardò dentro l’obiettivo puntando lo sgabello. Come per magia, dal nulla, sopra vi era comparsa una ragazza in accappatoio […]. Gero le fece una foto d’istinto, poi rimise a posto la macchina. […] La ragazza sembrava di cartone, lo spezzone di una pellicola. Solo qualche battito di ciglia rivelava che era una persona. […] «Chi ha fatto questa foto?», si sentì dire. […] «Sei stato tu?» […] «È bellissima», sorrise l’uomo, ammirando il display. Subito dopo si rabbuiò, incattivì lo sguardo. «Non toccare la mia roba»
Da questo brano poco significativo del resto intuiamo molte altre cose: per esempio l’aggettivazione come forma principale di individuazione (à la epiteti formulari, ma meno): l’«uomo pelato» è tale come Amon è bello, come zia Clotilde è «grassa» e circondata da un «odore di schifo», come come come. E poi, il punto di vista sostanzialmente patriarcale.
Peperoncino
Sento puzza, leggendo, non di «miasmi» da cucina ricca di olii, come vorrebbe fingere Zannoni nella cucina di zia Clotilde, piuttosto di maschilismo (sarà un caso se il protagonista Gero è l’unico a non avere «odore»?). 25 è un romanzo superficialmente maschilista. Sguaino subito la spada: non sto dicendo che i personaggi debbano sempre essere “corretti” ideologicamente. O che la trama debba servire una particolare ideologia. Dico che la forza di un romanzo sta anche nella complessità dei personaggi e che esistono tanti modi di essere superficiali. Qui, la superficialità si vede soprattutto nella costruzione dei personaggi femminili, sempre secondari (nonostante la loro centralità), sempre inermi e distanziati (cioè desiderati) come oggetti. Va da sé che questo “maschilismo” narrativo investe anche i personaggi maschili, appiattiti in vettori semplicissimi, incapaci di provare amore o desiderio non ossessivi. Il fastidio aumenta per l’utilizzo di un narratore onnisciente ottocentesco, che si trova a raccontare molto spesso i pensieri di Gero, tanto da far pensare al lettore che l’io narrante sia proprio un Gero del futuro intento a fare automitologia. Più approfonditamente, di seguito.
In questo libro tutte le donne sono femmine (un capitolo di intitola, appunto, «Un sogno di femmina»). Beirut (la sorella di Tommy), Betta e la signora Kilhdren sono chiamate in causa o come funzioni strumentali alla trama o, nella maggior parte dei casi, in quanto ipostasi reali del sogno di Gero di avere una famiglia nucleare, o di scopare. Zia Clotilde è raccontata con “schifo” perché vista come donna senza marito («annegato in mare») e senza figli, troppo adulta per mantenere il fine procreativo. Infatti, il narratore si concede a una descrizione da gentiluomo al bar ricordandola da giovane.
Certe foto di lei da ragazza mettevano stupore. Era bellissima, magra, e con un sorriso selvaggio: una donna da fermare, se ci si riusciva, e da stringere forte, per sempre.
Amon sta con una ragazza (più volte descritta come non “all’altezza” di lui), che è solo «il volto di Isidora», nient’altro. E nonostante Amon le faccia violenza dando avvio a una rissa fuori contesto per gelosia («e fu chiaro a tutti, dentro a quel dehors, che l’aria aveva preso l’odore del sangue», sic), lei torna da lui e tutti sono felici perché, semplicemente, il ragazzo è «innamorato» (tradotto: normale si comporti così). Del resto, come già annunciato, anche i maschi sono solo maschi etero cis tossici. A parte la stringa ironica (mica tanto), Gero è incapace di desiderare davvero, è un uomo allucinato che, per uscire dall’allucinazione (almeno narrativamente), è costretto a molestare Betta. Si sarebbe potuto prevedere l’episodio se, alla fine del capitolo XVIII, Betta ricambia «d’istinto» un abbraccio e lui sente già «di essere tratto in salvo». Nel capitolo successivo, alla fine, appunto Betta fa il grosso errore di provare a instaurare una connessione emotiva, lasciandosi ai ricordi personali:
Lei gli venne incontro per un abbraccio, lui le diede un bacio. In un primo momento Betta cercò di tirarsi indietro, ma stava già andando avanti, e fu costretta a riceverlo. L’attimo dopo aveva ricambiato: aveva risposto al suo bacio con un bacio, aveva smesso di pensare. Sul filo delle labbra, Gero fu sfiorato dalla tenerezza. Lo avvolse e lo accese. Il piatto che lei teneva in mano gli premeva contro un fianco, gli dava un piccolo dolore, una fantastica ferita, sferzata dalla gioia, e dal suo respiro. Betta si distolse da lui con decisione. La mano che aveva libera lo spinse via con delicatezza. Gero aveva ancora gli occhi chiusi, strappato d’improvviso a sensazioni troppo care, a un mondo da cui non sarebbe mai voluto scivolare via. Ne fu sorpreso e svilito: era bastato un piccolo disimpegno del capo. Aprì gli occhi e vide i suoi, quelli di Betta, grandi e spalancati, umidi di lacrime.
E ancora: «La realtà gli crollò addosso, a peso morto, come avrebbe dovuto fare fin da principio. Gero sentì di apprezzare anche questa condizione. L’aveva agognata di nascosto, e adesso finalmente era arrivata, si era svegliato». Il maschio che non problematizza le sue azioni (o le problematizza verso l’autoassoluzione) perché gli dànno l’opportunità di capire la realtà, mentre la donna rimane del tutto svilita.
Acciughe sottolio e capperi
Come mi hanno fatto notare altri lettori, la scelta di Zannoni potrebbe essere proprio quella di mettere in scena una realtà maschilista. Sono d’accordo, soprattutto perché la “Grande Gabbia” che Amon e Gero cercano di teorizzare osservando la gabbia fisica di Richard sembra essere anche la gabbia della mascolinità. Uomini che non possono liberarsi dello scheletro ereditato dalla società e che si dànno a una fuga allucinatoria, psicotica o quasi (penso soprattutto a Martin). Sembra, però, dal momento che la teorizzazione non va oltre, non ha spazio. Il libro si conclude con accondiscendenza nei confronti di tutti i personaggi maschili (persino nella morte): tutti progrediscono, fanno la cosa giusta, le donne rimangono nella loro condizione originaria. Questo “maschilismo”, tra l’altro, non è l’unico dei sintomi di una preoccupante mancanza di coscienza storico-politica.
Un’altra delle ragioni per cui questa trama e questi personaggi, questa diegesi (anche gli ambienti sono stereotipici), risultano così fastidiosi è che sono buttati in pentola come ingredienti che rifiutano di integrarsi in un piatto. Esempio, incipit di cap. XIX:
Non si dissero troppe cose. Betta provò a ricordare Clotilde per come l’aveva conosciuta: una grassa signora gentile che le regalava la cena, una persona più che perbene strappata alla vita troppo presto, come tutte le persone perbene.
Questo romanzo è tutto scritto con questa, diciamo (con una carezza mia) particolare sensibilità aforistica. La poca sostanza narrativa (nonostante la sovrabbondanza di potenziale trama) è rattoppata da un intero repertorio di luoghi comuni e cliché letterari. Anche una sorta di faciloneria morale, di pensiero autocosciente basic, su sé e la società, correlativo del difetto più grande del romanzo cioè una totale aproblematicità di forma e contenuto (come la seguente, quasi montaliana):
Gero lo conosceva ma allo stesso tempo non avrebbe saputo dire il suo nome: faceva parte di un grande gruppo indefinito, in continuo mutamento, le ombre, come le chiamava lui. Erano le compagnie occasionali, gli amici fasulli, sempre pronti a prendere qualcosa per poi dileguarsi, che fosse una notte o un’intera settimana. Non davano niente e non lasciavano tracce, a parte quando ti distruggevano casa, o elemosinavano qualcosa. Di ombre ce n’erano tante, un numero quasi infinito. Potevano essere fugaci, oppure s’insinuavano pian piano nelle vite degli altri, per prendere ciò che gli serviva e svanire al momento adatto. Gero stesso era stato un’ombra per qualcuno. In certe occasioni, dava il nome del ragazzo, e di certo quello non si ricordava il suo. Parlavano per finta.
Cominciò a non respirare bene, il cuore alle tempie, la vista gli si faceva sfocata, spaventosa, un film dell’orrore a cui lo costringevano ad assistere.
Non ci si crede perché è qualcosa di concreto: ci si crede perché si deve credere in qualcosa, altrimenti chiunque avrebbe chiaro di stare solo respirando, di essere insignificante. Ci si può ornare di qualsiasi titolo, professione, gloria o infamia, ma il succo resta: abbiamo delle vite piccole, fatte di cose piccole, e questo non si cambia.
Che senso aveva vivere per non essere niente? Che senso ha contare i giorni, attraversare le stagioni, se non si ha nulla da ricordare, nulla da prendere? Erano tutti perduti. Andavano a vuoto. Occupavano solo spazio. Gero si difese: pensò intensamente a Beirut.
Mollica di pane tostata e pepata
L’impressione è che molto viene lasciato a una sorta di senso del destino manzoniano (o biblico, come era stato per la faina protagonista di I miei stupidi intenti; ecco: ho rotto il mio proposito originario). Ma è impossibile. Tutta l’assertività va di pari passo, ovviamente, con la costruzione dei personaggi detta prima, che è inoltre didattica se non didascalica:
Se ne stettero zitti. L’avevano visto così in altre occasioni: non avrebbe fatto nulla, ma si stava per offendere. Quando si offendeva, Barracus ti cacciava fuori di peso, ti bandiva dal locale per un po’. Farsi riammettere esigeva un rito ben preciso: una sfilata di scuse, prostrazioni e prese in giro che rischiavano di durare anche parecchio. Si poteva sempre cambiare bar, ma così si sarebbe offeso due volte, e a quel punto si era esiliati a vita.
Prosa sillogistica dove non può emergere nulla. Nessuna ragione profonda, solo meccanismi superficiali, burocratici. Vi risparmio ovviamente la Grande Gabbia («Maledetta la Grande Gabbia», cit), ma faccio altri esempi:
Gli vennero i sensi di colpa. Se ne stava a fantasticare su Beirut mentre il suo amico era in un letto d’ospedale, in coma. Aveva un piede nella fossa e lui sognava di sposarsi la sorella, e di farsi pure mantenere da lei.
Si coprì la faccia con una mano, vergognandosi da solo; il suo migliore amico era quasi morto, e lui di nuovo sognava sua sorella. Sapeva fare belle foto, d’accordo. Per il resto poteva anche gettarsi in un pozzo: non avrebbe fatto alcun rumore.
È una scrittura fin troppo facile: sembra addirittura la bozza di un libro. Questi passaggi sono come appunti personali di ciò che sarebbe ancora da raccontare. L’impressione si rinforza nella sintassi ripetitiva, paratattica, e nelle pagine e nei periodi “circolari”. Si tratta di interi brani di testo che in sostanza dicono sempre la stessa cosa, come si trattasse della coesistenza di più varianti autoriali. Immagino lo strumento revisione dell’editor e i commenti: “potresti scriverlo diversamente”, e poi dimenticare di eliminare il thread. Per esempio:
Erano poche le cose che non si potevano fare nel locale di Barracus: appunto perché erano poche, non andavano assolutamente fatte. La prima di queste era infrangere il record sul flipper.
Il flipper in quel posto era la misura di tutto: non era permesso vincere, ma ci si poteva sfidare moderatamente, perché gli uomini fanno così.La sua voce non rimbombò affatto. Le indicazioni erano chiarissime, non serviva chiederle di ripetere: […].
Relitti: una marea di rottami a perdita d’occhio, abbandonati da qualcuno scomparso nel nulla.
O automatismi davvero infelici, da penna rossissima, in similitudine:
come una madre eterna, una luce senza tempo.
come gli squali con il sangue.
come un lontano miraggio, qualcosa che non avrebbe più potuto raggiungere.
In analogia:
Era uno spaventapasseri. [Più riferimento a Il mago di OZ, ovviamente]
Non aveva più occasioni, la faretra delle frecce era vuota.
In personificazione:
Una tetra atonia gli allungava il respiro.
Vi ricordate la particolare sensibilità aforistica, ecco:
Era sciocco fantasticare, soprattutto se si trattava di trastulli, quei sogni fatti di carta, con cui strozzare il fuoco.
Tra colline «smussate» e vento «pigro» che mormora, io non so cosa dire. La confusione generale (narrativa, sintattica, allegorica) peggiora quando la distopia – la descrizione di un mattatoio un po’ fuori fuoco, soprattutto nel buio e nell’asetticità, con l’aggravante del cannibalismo ammiccato; l’episodio della clinica di sogni indotti Blue Pill e il sogno vivido di Gero – si manifesta come un tentativo disperato di dare profondità al romanzo. Nell’omaggio (spero) ad Atlanta di Donald Glover e a Tenet di Christopher Nolan, Zannoni non può salvarsi. Neanche nelle tante epifanie finali.
Cala la pasta, una struncatura calabrese, mi raccomando
Ho comprato 25 perché mi è piaciuto I miei stupidi intenti. Per questa ragione, la violenza di questa stroncatura (sì, è anche un piatto povero della provincia di Reggio Calabria) è forse inspessita da un senso personalissimo di delusione. Non tanto verso Zannoni (anche, certo), ma verso un meccanismo editoriale preciso: l’insistenza con cui si chiede a un esordiente di riconfermarsi, a stretto giro. Non so se Zannoni sia anche “vittima” di uno di quei contratti pluriennali, che richiedono la consegna dei testi a intervalli temporali francamente complessi. Ma il dubbio c’è: davvero Zannoni ha prodotto un libro a due anni da I miei stupidi intenti? E se questo fosse il suo esordio, recuperato da chissà quale cassetto digitale? L’impressione è quella (e con questo vorrei, tra l’altro, lanciargli un’altra ancora di salvezza). Fossi stato in lui (o nell’editor) ci avrei lavorato ancora, sciogliendo molti passaggi ed eliminando qualche idea stravagante. C’è tempo, ovviamente. Il suo secondo libro invece, I miei stupidi intenti – il più difficile da scrivere, come sappiamo – è interessante. Per questo, tanto di cappello.