Mamma tentava di suicidarsi tutte le settimane. Le domeniche, di preferenza.
Così si apre “Madre nel cassetto”, short novel di Sergio La Chiusa, parte della più ampia collana di testi di media lunghezza della casa editrice Industria e Letteratura, “L’invisibile”.
Nomen omen, dal momento che il protagonista del testo di La Chiusa è un invisibile, un personaggio talmente traumatizzato dalla pressione della vita (sociale, erotica, lavorativa) da finire – nel corso del racconto – in fondo alla lista delle persone con cui vorremmo parlare ad una festa o incontrare in un bar; qualcuno che – insomma – lasceremmo ciabattare via, invisibile, ai margini del nostro campo visivo, con l’ipocrita impressione di compatirlo e la segreta soddisfazione di non essere come lui.
E forse anche con un po’ di sollievo.
Luigi Loperfido è un personaggio che stonerebbe, infatti, in qualsiasi contesto mo ndano (starebbe bene solo in una convention di vecchi film western, di quelle che si fanno nei capannoni di periferia in vecchie città industriali), è il collega imbarazzante di cui ci vergogneremmo alle cene di lavoro, salvo poi chiamarlo nel cuore della notte per farci raccontare verità scomode della vita, per compire l’illusorio rito di auto-analisi che ci fa ancora sentire uomini e donne liberi.
Qualcuno che crederemmo lungi dal somigliarci – noi uomini e donne ben inseriti in una società il cui peso non siamo disposti a mettere in discussione, se non in sporadiche fantasie escapiste – se non fossimo costretti a calarci nei suoi pensieri ossessivi e lucidi, a ricostruire l’origine del suo trauma, come le parole schiette ed evocative di La Chiusa ci portano a fare.
Un inetto, direbbe qualcuno, un uomo di sveviana memoria, il diretto discendente di Zeno Cosini in salsa post-moderna: Loperfido è un bambino all’ombra dal padre-padrone e poi un adulto sciatto, invertebrato, autentico, nudo di fronte ai suoi desideri, alle sue paure e, soprattutto, alle sue mancate aspirazioni.
Lo seguiamo dall’infanzia ad una maturità acerba – sembra non crescere, eppure, alla fine del racconto, è un uomo fatto e finito, solo al mondo, che passeggia solitario nel ventre di una città patinata e menefreghista, più vero dell’illusione del mondo di cui si rende spettatore impassibile – vediamo attraverso i suoi occhi una vita familiare disfunzionale, raccontata con un’ironia tagliente, a tratti esilarante, e una storia d’amore degna di un personaggio secondario in un telefilm americano.
Loperfido ce la mette tutta per vivere, tirato com’è da una parte all’altra, da suo padre, da Arianna, dai vari capi degli uffici che gira, eppure c’è qualcosa – a sua detta – che non gli permette di seguire il cursus che tutti si aspettano da un giovane uomo di classe media.
E dove può avere origine l’inceppo, se non da un rapporto ossessivo e contorto, edipico, con la madre nel cassetto?
Se Loperfido è il protagonista fattuale della vicenda, è però sua madre il vero deux ex machina, la forza motrice delle disfatte e delle (scialbe) vittorie in quest’epopea del fallimento: è il mostro sotto al letto, il rigurgito inconscio di tutte le oscure verità che Luigi ritrova in sé stesso alla soglia dell’età adulta, la paladina che risorge dalla morte e che infesta i suoi sogni vivaci, dalle tinte cinematografiche, a metà fra un noir e un film erotico di seconda categoria .
E se la maggior parte dei protagonisti maschili della letteratura (lavoratori, mariti, amanti) riesce, ipocritamente, a scappare dal mostro, a schiacciarlo e a seppellirlo all’alba della propria ascesa in società, a Luigi Loperfido non interessano ascensori sociali, né grattacieli, né studi in centro. Non gli interessa cacciare via la madre nel cassetto per far posto alla vita vera: sceglie invece di rimanere alle domeniche dell’infanzia, alle finte minacce di suicidio, alle botte e alle ritorsioni, ai film western dove il cattivo vince sempre e l’indiano ingenuo viene rinchiuso in una riserva, ricordi che tornano come una litania, un tranquillante più potente delle benzodiazepine.
Come quando era bambino e giocava a ricostruire la battaglia di Little Bighorn, Luigi Loperfido vuole essere libero, anche a costo di figurare fra gli sconfitti, un po’ per coerenza (da bambino in verità prediligevo i western, che guardavo con papà, anche se con una rabbia impotente perché lui tifava per i bianchi e io invece per gli indiani) un po’ per evitare le ansie da competizione e altre patologie mentali che, secondo lui, affliggono i cowboy moderni, l’esercito di impiegati, dirigenti d’azienda, segretari e portaborse in lizza per la scalata finale.
E allora meglio essere soli in casa, trascinarsi da un punto all’altro della metropoli senza un lavoro, essere il cavallo sciancato, con la tuta e i calzini bucati, meglio passare in rassegna alla propria vita di fronte all’ultimo filetto di spigola rimasta in frigo e pensare ai propri genitori defunti, all’ex arrivista nel letto di un idiota, alle canzoni che si ascoltavano con il disincanto dei propri diciassette anni.
Meglio questo che galoppare verso il traguardo, nutrirsi dell’infimo inganno di essere gli artefici del proprio destino, solo per sfiancarsi il cuore fino all’azzoppamento e all’eutanasia e rimanere, in fin dei conti, il cavallo da gara di qualcun altro.
E poi, per fortuna, in casa c’è mamma, nel cassetto.
Colonna sonora consigliata per la lettura: Talking Heads, Fear of music (Sire Records, 1979)