
Silvia è una maestra che scompare. Fugge via da un dolore per lei insopportabile, il senso di colpa per la morte di Giovanna, alunna di undici anni che sceglie di buttarsi dalla finestra venendo assorbita dal fiume. La comunità cerca Silvia che, sganciata dal resto del corpo sociale, sceglie di smarrirsi. In questo suo farsi bosco, si abbandona a un incastro geologico di nuda vita e morte. Solo Martino, bambino che non appartiene al paese, riesce a trovarla, e tra la donna ferita e il bambino spaesato si instaura un legame fatto di parole semplici e gesti concreti.
D’altra parte, c’è il bosco, con il suo elemento antropomorfo e circolare, reso con un linguaggio sfumato, puntellato di lirismo dalla dimensione sognante, contrapposto al linguaggio incerto di chi rimane.
Vaglio Tanet ricostruisce un fatto di cronaca e l’atmosfera di una comunità in crisi, le palinodie del non detto in cui la coscienza di Giovanna sembra essersi inceppata, ma soprattutto mette a fuoco alcune fasi liminali della preadolescenza: i temi della violenza familiare e del trauma, di come alcuni segni – o stigmate – rimangano, e si sia tentati di seppellirsi nel bosco.
Tornare dal bosco è tra i dodici candidati al Premio Strega 2023, proposto da Lia Levi con la seguente motivazione:
« […] l’elemento che per me è risultato vincente è stata la doppia sfaccettatura dello stile letterario con cui la Vaglio si rivela. Da un lato un linguaggio sfumato con punte di liricità, da poetessa che è, quando ci descrive una fuga nella magia e nel messaggio segreto del bosco, e dall’altro il piglio crudo e quasi crudele nel momento in cui ci presenta fatti e personaggi del cupo paese fra le montagne. Un mix davvero interessante».
Ringrazio Maddalena per aver accettato di raggiungerci in questo spazio.

1. Come nasce l’esigenza di raccontare questa storia?
Credo di averla raccontata perché nessuno l’ha mai raccontata a me. Non me l’hanno raccontata perché si tratta di una vicenda che bordeggia l’indicibile, l’inimmaginabile, ed era rimasta irrisolta e continuava a interrogare, turbare, sbigottire. Ma è proprio dal confronto con l’indicibile, con lo stupore e con il perturbante che la letteratura ha origine.
Da piccola ho ascoltato decine e decine di storie dalla voce dei miei nonni, della mia bisnonna, della cugina di mio nonno che era stata maestra. Alcuni degli episodi rievocati erano comici, altri terrificanti o drammatici, altri ancora radiosi. Compariva spesso la morte in queste storie; la generazione dei miei nonni aveva ancora un rapporto di familiarità, di intimità, con il morire. Erano persone cresciute sotto il fascismo, avevano visto la guerra, la mia bisnonna ne aveva attraversate due. Dunque il problema non era tacere la morte. Che cosa, allora?
Una ragazzina si uccide, la sua maestra scompare. Questi sono i nudi fatti. Da subito presentiamo che resteranno misteriosi, perché certi atti umani non si possono rischiarare del tutto. La morte della ragazzina, la scomparsa della sua maestra, ci interpellano e provano a dirci qualcosa su come noi desideriamo vivere eppure a volte non siamo capaci di vivere, o ci sentiamo indegni di vivere. Stare al mondo è tutto ciò che abbiamo, ma può accadere che ci risulti impossibile o insopportabile.
Perché una ragazzina salta dalla finestra? Si rende conto che non ci sarà un dopo, che quello è l’ultimo gesto che compie? Cosa la spinge? Frustrazione, rabbia, risentimento, ingenuità, incapacità di credersi mortali, un impulso? Cosa precipita su di lei, in quel momento? La maestra: perché non riesce a tirare avanti, come fanno tutti intorno a lei, pur soffrendo? E queste domande hanno senso? Secondo me sì, ma solo se non si pretende di trovare una risposta chiara, univoca. Hanno senso se si accetta che ci sono aspetti del vivere e del morire che rimangono irriducibili, e sono come dei pozzi o crepacci dentro cui uno spinge lo sguardo pur sapendo che non riuscirà a intravedere il fondo. Ma il tentativo di guardare, e di trovare le parole per dire, vale qualcosa; vale la pena, letteralmente. Mi turbavano, e quindi mi interessavano, l’interiorità di una ragazzina che salta dalla finestra, di una maestra braccata dal senso di colpa. Mi interessava il bene che si erano volute, mi interessava immaginare l’amicizia tra la maestra e un altro ragazzino. Sto parlando dei personaggi, non delle persone reali. Ho scritto un romanzo d’invenzione a partire da alcuni avvenimenti accaduti più di cinquant’anni fa.
2. Quasi una favola nera, un fatto storico purificato dalla contingenza, che ruolo ha la fanciullezza nella narrazione?
Bruno Schulz scriveva che occorre “maturare verso l’infanzia”. La fanciullezza contiene in sé la facoltà di sentirsi parte della materia del mondo, come se in qualche modo si potesse attingere al tempo lunghissimo, o remoto, della specie, e per gioco e per istinto si riconoscesse ciò che ci apparenta all’animale, alla pianta, al minerale, alla stella. I bambini hanno uno sguardo concentrato ma anche erratico, per cui fantasticare e scrutare, osservare e trasognare, vanno insieme: la realtà è materia di fantasia, per così dire, e viceversa.
I miei personaggi fanciulli stanno uscendo dall’infanzia e si stanno affacciando all’adolescenza. Stanno su una soglia, vivono una metamorfosi. Giovanna vede il suo corpo cambiare, i suoi pensieri aggrovigliarsi, e prova sconcerto, vergogna, ma anche un senso intermittente di trionfo. Martino entra nel bosco, che funziona proprio come una frontiera e una soglia, e trova la maestra perché è lui stesso una creatura liminale.
Nel bosco delle fiabe, i ragazzini passano dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, perché nel passaggio dal bosco perisce l’infanzia. Il bosco è ambivalente, può voler dire pericolo o rifugio e spesso entrambe le cose insieme, ma è sempre il luogo del passaggio e della crescita (se va tutto per il verso giusto). Il ragazzino ha ancora dentro di sé il bosco, è ancora selvatico, non è del tutto inserito nella società, non si è individuato del tutto – questo ci dicono le fiabe in quanto forma di un rito di passaggio – e si immerge nel bosco per poterne poi sortire definitivamente, cioè per dire addio all’infanzia.
La maestra, al contrario, entra nel bosco perché vuole uscire dal consorzio umano, vuole disfarsi della coscienza, vuole tornare all’indifferenziato, alla felce, alla corteccia, alla spora. Non può cancellare la morte di Giovanna, andare indietro nel tempo e salvarla, perciò può solo desiderare di annichilirsi, non vede altro modo di sfuggire al dolore. Per questo lei e Martino si incontrano nel folto del bosco. Per questo Martino le può ricordare che, forse, uscire dal bosco è possibile per entrambi. Per questo la maestra nel bosco trova anche la se stessa passata – bambina cristallizzata e mai del tutto maturata. Lui, Martino, affronterà la piccola morte che è crescere. Lei, Silvia, si ricorderà che vivere non è solo perdere, ma anche amare, prendersi cura, e questo rimane vero nonostante Giovanna non ci sia più. Ma non c’è niente di male nell’aver voluto morire, nell’essere fragili. Non si torna dal bosco guariti. A volte, semplicemente, si torna.
3. Cosa pensi serva per raccontare una storia come questa?
Come provavo a spiegare poco sopra, credo che si debbano impiegare tutte le risorse e le energie conoscitive e stilistiche che si hanno a disposizione, tutta l’esperienza, il pensiero, l’immaginazione, e però accettare che questo tipo di storia farà sempre resistenza, ma proprio per questo merita di essere raccontata. Il suicidio di Giovanna non sarà mai compreso, non sarà mai spiegato. Nemmeno la forza di Martino si può afferrare del tutto: un bambino che tiene in vita un’adulta, che gioca alla missione di salvataggio e porta sul serio acqua, salame, fette di torta, mele, un fumetto, parole, e chiede cosa sia la coscienza e capisce che la maestra è sospesa tra i morti e i vivi e deve decidere da quale parte andare. Gliene lascia il tempo.
Ma forse, a guardare davvero da vicino, un residuo indissipabile di mistero è proprio dell’essere umano. I nostri gesti e moventi profondi sono il risultato di una miriade di fattori, macroscopici e microscopici, stabili e evanescenti, delle circostanze, del contesto in cui ci troviamo, delle persone che abbiamo intorno, delle relazioni, della classe sociale, dell’età, dei dettagli più minuti, della genetica, e naturalmente dei nostri desideri, pensieri, idee, gusti, volontà, tutti combinati insieme in una maniera irripetibile che tiene insieme determinismo, arbitrio e caso. Il romanzo, proprio come genere letterario, prova a dare una forma a questa complessità, a rifarla, mimarla, evocarla.
Ho voluto che Giovanna fosse un personaggio a tutti gli effetti e che mancasse al lettore come manca a Silvia, la maestra. Ho cercato di essere delicata e onesta nei suoi confronti e nei confronti del lettore, e in generale ho lasciato molto spazio al lettore per sentire e ragionare, quindi penso che il romanzo sia abbastanza esigente e per nulla consolatorio. La lingua accompagna i personaggi e lo svolgersi del racconto. Faccio un esempio. In generale ho perseguito nitore, esattezza, ricchezza lessicale nel nominare, agilità sintattica; tuttavia, per raccontare le prime ore nel bosco della maestra, le allucinazioni, i fantasmi che la visitano (una vera e propria selva di voci, che sfiora il delirio), ho impiegato una lingua che deve molto a procedimenti tipici della poesia. Dunque ci sono versi sparsi nella prosa (endecasillabi, novenari, settenari…), un’attenzione al ritmo dato dagli accenti, e una serie di allitterazioni, assonanze, slittamenti, riverberi associativi, di senso e di suono.
4. Il tema del mese di Palin è viaggio. Che tipo di itinerario è quello dei tuoi personaggi?
Si tratta di un viaggio purgatoriale, appunto di sospensione tra l’inferno personale del senso di colpa, della vergogna, e l’accettare di essere vivi, degni di amore e persino felicità – il barlume che vacilla di Montale. C’è poi il viaggio del crescere, come dicevo, che è avventuroso e a tratti spaventoso, ma anche elettrizzante.
“Vide capelli, una faccia, un maglione, una gonna. La maestra scomparsa era a due passi da lui, viva. Di nuovo si nascose e contò fino a dieci, come gli imponeva di fare sua madre quando voleva che si calmasse, anche se non funzionava mai. Allora pensò: porcogiuda porcogiuda porcogiuda porcogiuda, e strinse i denti e i pugni. Gli sembrò che andasse un po’ meglio, ma ancora non riusciva a credere ai suoi occhi. Li chiuse e li schiacciò con i pollici come per sincerarsi che funzionassero, poi tolse le dita e la luce dietro le palpebre si fece rossa e brulicante. A poco a poco mise a fuoco il bosco, le sue scarpe sporche di terra e scurite dall’umidità. Non era un sogno, si trovava lì per davvero”.

2022
Romanzi e Racconti
9788829717538
Maddalena Vaglio Tanet (1985) ha studiato letteratura all’Università di Pisa e alla Scuola Normale. Si è poi trasferita a New York per un dottorato alla Columbia University. Adesso abita a Maastricht e lavora come scout letteraria. Ha pubblicato poesie in italiano e tedesco, oltre ai libri illustrati Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati (Rizzoli 2020, finalista al premio Strega Ragazzi 2021 come miglior esordio) e Casa musica (come un papero innamorato) (Raum Italic 2022).