Come molti libri di valore, Il lungo cammino di Ayhan Geçgin (nato a Istanbul nel 1970, e insignito del premio Orhan Kemal nel 2020) lascia al lettore molti interrogativi.
La trama è molto semplice, riassunta completamente nel titolo: un uomo, dopo averne fantasticato, un giorno abbandona la casa in cui vive con la madre, per intraprendere, appunto, un cammino:
«si preparò. Mise qualche indumento nello zaino, mi sveglierò presto e mi metterò in viaggio. Sarà un lungo cammino, questo» (p. 7).
Anche lo scopo (raggiunto, di fatto) di questo viaggio viene subito chiarito:
Adesso ho un obiettivo chiaro. Uscire dalla città, camminare senza guardarmi indietro fino a una vasta pianura, fino alle silenziose pendici di una montagna. Alla fine, pensò, voglio dimenticare tutto, dimenticare perfino di essere un uomo. Mi smantellerò pezzo per pezzo, filo a filo. (p. 12)
A ben vedere, questa dichiarazione si rivela bizzarra: il protagonista, infatti, innanzi tutto afferma di non avere una meta, poiché una «vasta pianura» e «una montagna» sono locuzioni troppo vaghe per determinare un obiettivo geografico.
In secondo luogo, il desiderio di «dimenticare tutto» porta all’esito paradossale del dimenticare l’obiettivo stesso: «apriva gli occhi, ho uno scopo, si diceva, con una voce che gli sembrava alta, ma qual era quello scopo? Non era più sicuro di quale fosse» (p. 67).
Il topos del viaggio, dunque, viene subito manipolato, in un certo senso mutilato del suo senso (la meta), piegato a una necessità di trama: il cammino non serve tanto al protagonista, quanto al lettore, come concretizzazione di un mutamento che è tutto spirituale. E infatti, come si vedrà più avanti, il protagonista non rimarrà alle «pendici», ma ascenderà, fisicamente e simbolicamente, sulla montagna.
Il viaggio è, come suggerisce la citazione, il processo di smantellamento, graduale ma non lineare, di quella costruzione sociale che è l’identità personale.
Ogni passaggio, ogni evento, ogni dialogo del romanzo è il racconto del rifiuto di una delle varie concrezioni dell’identità, uno dei tanti significati che gli attribuiamo.
Uno di questi è tutto il bagaglio di ricordi, ma anche tutte le informazioni e competenze imparate negli anni:
«poi, dopo tutte le cose imparate, forse verrà un momento in cui imparerò a non sapere niente, a poco a poco, piano piano, giorno dopo giorno, non saprò più» (p. 62).
Un altro elemento identitario è il nome (di lui si conosce solo il nome che egli dà agli altri, per comodità, una sorta di nome di servizio: Erkan).
Erkan sembra volersi sottrarre a tutte le dinamiche che strutturano la società, dalle norme capitaliste del dare e avere (da cui il desiderio di non avere soldi o di non possedere un luogo dove ripararsi e dormire, il rifiuto di unirsi agli uomini che vivono rovistando nella spazzatura – parassiti del sistema capitalista), alle più disinteressate forme di aiuto.
Erkan elude qualsiasi rapporto umano che non sia occasionale, evita soprattutto il dialogo (più volte dirà: «la voce delle persone mi fa male», p. 75): se la comunicazione è uno dei mezzi con cui cerchiamo conferma della nostra esistenza, Erkan invece vuole identificarsi nel non-essere.
L’unica eccezione è una bambina, trovata sulla montagna: il loro rapporto silenzioso ha qualcosa di primordiale, si basa sulla sussistenza, e proprio quando la bambina tenta di comunicare, lei deciderà di seguire altri curdi e lascerà Erkan finalmente solo.
Altra identità rinnegata è quella nazionale, politica e storica. Nella seconda metà del romanzo, quando si è immersi ormai completamente nel flusso dei pensieri del protagonista, la Storia turca fa irruzione nella trama, in maniera violenta e inaspettata: le manifestazioni contro il governo turco, la violenza cieca delle forze di polizia, la guerriglia curda, i profughi siriani.
Erkan finisce dentro la Storia per sbaglio, per coincidenza, e sempre fa in modo di svicolare, di sottrarsi e ricominciare a camminare.
L’unica cosa di cui Erkan non riuscirà mai a liberarsi è il proprio corpo. Fin dall’inizio cerca di sottrarsi alla propria contingenza, ma mai riesce del tutto. L’emblema, la mise en abyme, dell’avvenuto distacco dall’identità, come qualcosa di altro da sé, arriva a metà del libro. In una scena onirica, Erkan subisce una dissociazione fra il proprio corpo e il proprio io incarnato, che egli abbandonerà sulla riva del mare, per non ritrovarlo più.
Camminando, aveva talvolta l’impressione che ciò che considerava se stesso camminasse con il corpo smagrito, lievemente chinato, a un palmo davanti a lui. […]
Remò fino allo stremo. La riva era lontana. Il cane si era rimpicciolito a poco a poco e poi era scomparso del tutto. Prima che sparisse, per un attimo, vide quell’altro, quello che talvolta aveva sentito trotterellare davanti o dietro di sé, immobile sulla riva, puntato lì come uno spaventapasseri. O credette di vederlo. Forse l’altro lo aveva accompagnato per tutta la vita, come un’ombra, che ci fosse o meno la luce, come un fantasma, a volte rendendolo incapace di distinguere chi fosse l’ombra e chi il fantasma. Bene, ma cosa o chi era realmente?, si chiese. […] Poi ogni cosa, tutta la riva, si cancellò e diventò indistinta. (pp. 93-102)
Dopo aver lasciato il peso del proprio io, può incominciare l’ascesi.
Geçgin è stato definito più volte, e a ragione, un autore esistenzialista. Il lungo cammino ne è un esempio perfetto, perché la parabola di Erkan mostra contatti precisi e ingenti con l’esperienza ascetica come descritta da Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione.
Per il filosofo, uno dei tre modi per liberarsi dal dolore insito nell’esistenza stessa è l’ascesi, che si configura come la negazione della volontà di vivere attraverso la soppressione degli istinti vitali. Nonostante a più riprese il protagonista dica che non vuole morire, è evidente anche un sotteso rifiuto della volontà di vivere, e anzi una vera e propria pulsione di morte, che emerge sottilmente, nell’ultima sezione, nella volontà di salire sulla montagna, luogo evidentemente pregno di simbolismo oltremondano, ma allo stesso tempo rifugiarsi in grotte talmente profonde e buie da ricordare inevitabilmente un ambiente tombale.
Ma la pulsione di morte si rende perfettamente manifesta fin dall’inizio, in una delle scene più potenti (e freudiane) del romanzo:
Finita la pioggia, si sdraiò bocconi sul prato. Inspirò l’odore della terra bagnata, dell’erba. Fece aderire bene il corpo al terreno e strofinò il volto sul suolo. Terriccio, foglie ed erba gli riempirono la bocca. Il volto si ricoprì di terra bagnata. Entrare nella terra, mormorò, farsi strada dentro il terreno. Per un po’ restò sdraiato così, immobile. Poi d’un tratto si accorse con stupore che il suo membro si era indurito per la prima volta da quando si era messo in cammino. Eiaculò subito. (p. 41)
Il lettore, per tutto il libro, si ritrova suo malgrado a fare quello che tentano tutti i personaggi che incrociano il cammino di Erkan: attribuirgli un’identità, uno scopo, un copione, dei desideri, dei valori. Tutti questi personaggi pensano che Erkan debba volere ciò che tutti gli uomini all’interno della società vogliono: salute, soldi, cibo, vestiti puliti, un luogo dove vivere, stabilità, serenità; alla fine, viene attribuito, da un guerrigliero curdo, ad Erkan anche il desiderio di libertà, che può apparire come uno dei più basilari per l’uomo. Eppure, alla fine del libro, si è costretti ad accettare che queste categorie non sono che forzature, e che i desideri di Erkan sono in realtà volti a liberarsi di ogni categoria.
Solo la cancellazione totale dell’uomo, alla fine, permetterà al protagonista di aprirsi a una nuova, imperscrutabile, vita.
A cura di Chiara Schirato