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C’era il disoccupato, c’era quello che non aveva mai lavorato, quello che iniziava a lavorare, quello che dopo anni era stato licenziato e non sapeva che pesci prendere. C’era quello che non stava capendo nulla ma in quel momento sapeva che doveva andare a fare surf, e andava bene così.

Cecilia Campini

 

Sono stata male ma ho voluto continuare, ho scoperto nuove fragilità, ho parlato di me a persone con le quali ho condiviso 10 km di strada e nulla più, mi sono sentita parte di tanti gruppi diversi nei tantissimi ostelli in cui ho mangiato e dormito, e infine mi sono resa conto che le difficoltà di quel viaggio mi spaventavano tanto quanto il restarmene a casa.

Irene Buzzelli Alòs

 

  Nel mese dedicato al tema ”Viaggio” noi di Palin volevamo dare una lettura quanto più ampia possibile dell’argomento, e soprattutto attuale. Così ci siamo messi a pensare alle implicazioni più dirette, le cui cause e conseguenze sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti, che il viaggio può avere nelle nostre vite. E per ”nostre” s’intende (e ci si perdoni per una volta se il messaggio tende all’esclusività) di noi della generazione Y, detti anche millennials. I nati cioè tra il 1982 e il 1996.

Ci siamo interrogati, insomma, su cosa possa rappresentare il viaggio, inteso come esperienza di vita prima che come spostamento fisico da un luogo a un altro, in questo particolare momento storico e per una generazione così tanto schiacciata dalla retorica del successo da arrivare a sentirsi addirittura obbligata al successo.

Se ci sono infatti dei dati interessanti legati ai giovani italiani che il post covid ha fatto emergere sono quelli che parlano del rapporto che i ”giovani adulti” e gli ”adulti giovani” (definizioni che si stanno diffondendo e perfezionando in questi anni) hanno con i padri (genitori, classe dirigente, datori di lavoro) e con la retorica che questi hanno costruito attorno al mondo del lavoro e alla necessità di perseguire obiettivi di vita ben precisi.

In Italia, secondo le cifre del ministero del Lavoro riferite al secondo trimestre del 2021, si è registrata una notevole crescita nel numero di dimissioni volontarie dal posto di lavoro, il 70% delle quali riguarderebbero i giovani tra i 26 e i 35 anni. I millennials, appunto.

Che spiegazione dare a questo dato?

Secondo la psicoterapeuta Stefania Andreoli, che ha affidato la sua interpretazione di questo e altri fenomeni al suo ultimo libro, Perfetti o felici. Diventare adulti in un’epoca di smarrimento (Rizzoli, 2023), è in atto tra  i giovani una ridefinizioni dei concetti fondativi che per decenni hanno sorretto e orientato le vite dei loro genitori e prima ancora dei loro nonni. I giovani adulti (che Andreoli individua nella fascia d’età compresa tra i venti e i trent’anni) e gli adulti giovani (tra i trenta e i quaranta) stanno chiedendo di poter essere liberi di rimettere al centro del proprio villaggio ciò che per loro ha più importanza: il concetto di qualità, come cardine principale per una vita in salute. In salute mentale, prima di tutto. Sì, mentale. Perché tutto parte dalla testa.

E in tutto questo come si inserisce il viaggio?

Il viaggio è, forse, l’unica vera possibilità di dare un taglio netto a una continuità che si sente sbagliata, pensata non per sé stessi e dunque stringente, asfissiante. Che si tratti di una carriera, di una relazione, del rapporto con la propria famiglia o di una brutta esperienza da lasciarsi alle spalle, partire può voler dire porre una distanza reale, cioè fisica e geografica (e, alla lunga, si spera anche emotiva) tra sé e ciò da cui ci si vuole allontanare. È l’unico movimento a far convivere una ricerca esplorativa esteriore con una interiore.

Un viaggio può diventare un atto catartico, specie se compiuto in momento di crisi o transizione. Non solo vacanza, quindi, ma vero e proprio tentativo di conoscenza, di scoperta o riscoperta.

E così abbiamo chiesto a due viaggiatrici esperte, Cecilia e Irene, entrambe millennials nate nel 1993 (e che quest’anno compiono trent’anni) di raccontarci il loro viaggio più importante, compiuto in un momento di dubbio o incertezza scaturito da questo cortocircuito socio-generazionale.

Il viaggio dei millennials e il loro sguardo sul mondo: meglio felici che perfetti

Foto scattata da Cecilia a Bali

 

 

 

Cecilia, 29 anni, Bali

 

 

 

 

 

Nel giro di otto anni sono arrivata a raggiungere tutti i miei obiettivi lavorativi. Ho dedicato gli anni successivi alla laurea ai miei obiettivi di carriera e alle aziende per cui ho lavorato, arrivando a ricoprire – con soddisfazione, certo – posizioni di grande responsabilità, fino a vedere realizzato ciò per cui avevo studiato. Ma, senza neanche accorgermene, sono arrivata a perdere il contatto con me stessa. Tutto il mio tempo era dedicato al mio lavoro, tutte le mie relazioni erano legate al lavoro, quello che raccontavo di me era legato al lavoro. Ero arrivata al punto di temere di espormi e raccontarmi anche ai colleghi miei coetanei per paura di mostrare loro una debolezza che avrebbe potuto compromettere la mia credibilità e la posizione in azienda. L’immagine che avevo di me stava sbiadendo, così ho deciso di mollare tutto: il contratto, il posto fisso, lo stipendio. E la prima idea che mi è venuta è stata quella di partire.

La mia priorità non era scoprire e conoscere una nuova cultura o le usanze del posto. Quello poi è accaduto, perché l’ho voluto, ma l’urgenza era riappropriarmi di me stessa.

Di cosa, in particolare?

Durante gli anni in azienda sono stata chiamata a sviluppare una serie di skills: lavorare sotto stress, lavorare in team, lavorare al computer e contemporaneamente parlare al telefono, e mentre mi impegnavo in tutte queste abilità richieste perdevo sempre di più la capacità primaria di stare al mondo. Per questo sono partita: per mettere alla prova me stessa, i miei sensi e i miei sentimenti.

Perché hai scelto Bali?

È stata il risultato di una combinazione di fattori. Cercavo una meta che mi permettesse di rimanere almeno un mese, che fosse sicura (specie perché avrei viaggiato da sola) e calda.

Ho fatto qualche ricerca ma dopo aver scelto la destinazione non ho programmato praticamente nulla. Ho preso le informazioni necessarie su vaccini e permessi e ho acquistato un biglietto aperto.

Paure ne avevi?

Tante. La più grande era quella di ritrovarmi a non sapere che fare o dove andare, perché abituata alla vita metropolitana e frenetica mi spaventava fermarmi, sentirmi spaesata e senza qualcosa da fare.

Ne parlai alla mia psicoterapeuta e lei mi disse: ”Se non sai dove andare, siediti. Non devi per forza andare da qualche parte. Siediti e aspetta che ti venga un’idea. Concediti il lusso del tempo”.

E poi, una volta lì?

Non avevo programmi né itinerari, e quindi neanche obiettivi giornalieri da raggiungere. Ho visto e visitato molti posti, ma scegliendo sempre al momento, sulla base di quello che mi andava di fare e di vedere, e non perché dovevo vedere quelle cose o perché dovevo raccontarlo ai colleghi una volta tornata. Ero in ascolto di me stessa, e infatti ho cominciato un esercizio di riscoperta dei miei sensi, che sentivo anestetizzati. E poi ho incontrato persone, tra cui molti miei coetanei del posto e altri provenienti da varie parti del mondo, con storie tra loro diversissime eppure accomunate dalla ricerca di qualcosa.

Ciò che più mi ha sorpresa di questi incontri è stato constatare come quei ragazzi fossero molto meno influenzati da una narrazione del successo: non avevano paura di raccontarsi per chi erano, non erano preoccupati di dover risultare in tempo in qualcosa per l’età che avevano o di doversi descrivere come lavorativamente ed economicamente realizzati.

Eravano tutti giovani in costruzione, che si raccontavano e che stavano cercando di capire qualcosa in più su loro stessi.

Hai trovato quello che cercavi con questo viaggio?

Quello che mi sono portata a casa è stata la consapevolezza del coraggio, e la soddisfazione di essermi messa alla proa in un ambiente che non era il mio, come quando vado sott’acqua. Alla fine è la stessa dinamica: la proiezione geografica dell’immersione, cioè andare giù, stare in fondo e poi risalire è quello che succede costantemente dentro di me, e penso dentro ognuno.

Quando sei lì sotto, in profondità, sei sola, ed è buio; devi resistere e avere coraggio, devi mettere in pratica quello che sai e che sai fare e, quando non ce la fai più, cominciare a risalire, ma piano, perché la risalita è lenta, e richiede pazienza.

Cecilia mi ha confermato delle cose che già pensavo, ad esempio che tra le cose più complicate da affrontare in questi casi c’è il giudizio altrui.

Lasciare un posto di lavoro sicuro per partire è una scelta per molti incomprensibile, che rischia seriamente di essere tacciata come una ragazzinata, un  capriccio, una mancanza di responsabilità o addirittura di rispetto per chi non ha un lavoro o ne ha uno peggiore di quello a cui si decide di rinunciare. Ed è proprio la paura feroce dei giudizi a essere per molti un deterrente. Serve coraggio per mettersi a camminare in direzione opposta a quel vento freddo che ci soffia forte contro. Un vento alimentato dal paternalismo della classe dirigente, dagli imprenditori, dai social media che sono ormai vetrine sempre allestite di successi personali da mostrare a tutti, e dai nuovissimi guru del mindset e della crescita personale che ci raccontano che la differenza tra un fallito e un vincente sta nell’essere in grado di vivere senza scuse e in un’attitudine al sacrificio ai limiti del martirio.

E allora, sulla più grande paura che attanaglia un’intera generazione, faccio un’ultima domanda a Cecilia.

Che rapporto hai con questo spettro del fallimento?

Ho sempre avuto molta paura di fallire. Sul lavoro e nella vita non ho mai contemplato quella possibilità, mi atterriva la sola idea, e ancora mi spaventa. Ma ci sto lavorando.

A Bali ho conosciuto questo ragazzo cinese a cui una sera, parlando, ho confessato di avere in mente un progetto che mi piacerebbe realizzare ma che ho troppa paura di fallire. Lui, di tutta risposta, mi ha chiesto di raccontargli la mia giornata di surf. Io l’ho guardato, confusa, ma lui ha insistito, così gli ho detto che era stata una bella giornata di surf, che mi ero divertita. Lui mi chiede quante onde avessi preso e io gli dico tre, al massimo quattro. ”E quante ne hai viste passare?”, mi fa. ”Mah non saprei, forse cento”. Allora mi fa: ”Beh eccolo, il fallimento. Se su cento onde nei hai prese tre è stata una giornata di surf fallimentare, eppure mi stai raccontando di una bella giornata di surf. Stai imparando, ma hai comunque surfato. E ti sei anche divertita”. Mi ha lasciata di sasso.

Anche lasciare il lavoro per me è stato un fallimento, mi sono sentita debole. E sapevo che sarei stata vista come quella che non ha retto la pressione, che ha avuto una ”crisi d’identità”. Ma non fallire cosa vuol dire, per la nostra società? Avere un lavoro con un nome che puoi declinare in inglese?

Forse il viaggio di ognuno di noi e di questa società arrivista a tutti i costi dovrebbe partire proprio dal chiedersi: che cosa vuol dire non fallire?

 

Il viaggio dei millennials e il loro sguardo sul mondo: meglio felici che perfetti

foto scattata da Irene sul cammino di Santiago Irene, 30 anni, Santiago de Compostela

Sono partita mentre ancora frequentavo l’Accademia di Belle Arti. Dovevo preparare la tesi in fotografia e volevo raccontare una storia che fosse una mia storia. E così ho pensato al Cammino. C’era anche il progetto di farne un libro: io ci avrei messo le foto e due mie compagne di viaggio si sarebbero occupate dei testi e delle illustrazioni.

La decisione dunque non era legata – apparentemente – ad alcun bisogno interiore, a nessuna ricerca di risposte. Poi però la prospettiva è cambiata. Mentre ero lì che camminavo e camminavo sotto il sole e molto spesso da sola ho cominciato a pensare: ”Ma io, in fondo, perché lo sto facendo? Perché non ho scelto di raccontare, che so, un grande evento o la visita ad una città in cui non sono mai stata?”; e pian piano sono arrivata a capire che inconsciamente avevo preso quella decisione per dei motivi ben precisi.

Quali?

Allontanarmi da alcune situazioni che non volevo affrontare e dalla paura di quello che mi aspettava una volta consegnata la tesi, l’incognita del domani.

Mentre camminavo riflettevo sul fatto che è dall’età di diciotto anni che scappo, che non mi fermo mai e che sogno continuamente di andare lontano, e ogni volta di più. Non a caso, credo, la sensazione che più avevo provato da metà cammino in avanti era stata l’inquietudine che mi metteva addosso l’idea dell’arrivo. Da un certo momento in poi ho iniziato ad avere davvero paura, e più mi avvicinavo a Santiago più pensavo: ”E adesso? Cosa farò dopo che questa parentesi si sarà conclusa?”.

Perché in fondo quella era una parentesi, e la mia vita con tutte le sue situazioni e complicazioni  era lì, oltre Santiago, ad aspettarmi.

L’arrivo a Santiago è stato dunque il punto di partenza di un altro cammino?

Sì, e ci ho messo tempo ad accettare il ritorno alla mia vita. Dopo essere arrivata a Santiago, infatti, sono immediatamente andata a Porto. Ero confusa e scombussolata e per continuare a muovermi restando in quella bolla fuori dal tempo ho accantonato ogni pensiero e una gran quantità di emozioni che chiedevano di essere elaborate. Allo stesso modo una volta rientrata in Italia ho tentato di ripartire all’istante per un altro viaggio, ed è stato lì che si sono manifestati i primi attacchi di panico.

Da quel momento non sono più potuta fuggire, ho dovuto mettermi in ascolto e affrontare tutto quello che il cammino avevo smosso dentro di me. È stato un periodo intenso, complicato.

È proprio come se il cammino avesse rimestato il terreno dentro di te portando alla luce ciò che avevi sotterrato.

Sì, e ad un certo punto il mio corpo ha detto: ”Non hai voluto capirlo con le buone, adesso lo capisci con le cattive”. Riflettendoci dopo, a menta fredda, credo di aver avuto il primo attacco di panico già durante il cammino, proprio mentre era in corso quel rimestio interiore. In quel momento però non ero in grado di riconoscerlo e avevo attribuito la responsabilità di quell’improvvisa ”ansia” alle varie difficoltà incontrate lungo il percorso. 

Ti ha insegnato qualcosa, o lasciato qualcosa di duraturo oltre ai ricordi, quest’esperienza di viaggio?

Mi ha dato degli strumenti in più e una prospettiva diversa con cui affrontare la vita quotidiana. E ho cominciato a sentire tutto più relativo. Molte cose sono diventate meno necessarie di quanto lo fossero prima (banalmente: lo smartphone, i social, i vestiti, il bisogno di sentirmi accettata da qualcuno e di corrispondere a determinati canoni e standard), perché l’esperienza è stata talmente forte ma allo stesso tempo così semplice ed essenziale che ho sviluppato una nuova concezione di ciò che è essenziale e di quello che invece può essere superfluo. E ho imparato a prendermi più tempo per me.

E alla fine il tuo progetto di tesi?

Totalmente rivoluzionato. Durante il cammino sono cambiata io e con me il progetto perché, per una incredibile combinazione che si potrebbe forse chiamare destino, mi sono imbattuta in un ostello che aveva ospitato Sebastião Salgado, uno dei miei fotografi preferiti che avrei voluto inserire nella mia tesi, e dopo aver scoperto che il proprietario dell’ostello lo aveva conosciuto di persona la trasformazione dell’idea iniziale è stata inevitabile. Alla fine mi sono trovata a stravolgere tanto me stessa quanto le mie idee.

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  In un’intervista rilasciata alla Rai, Stefania Andreoli ha detto:

«Questa è una delle caratteristiche principali dalle quali partire per capire questa generazione dei millennials: per loro è centrale un’idea di qualità della vita che non è quella promossa dai loro genitori, che, se vogliamo, era quella del profitto, dello stipendio al 27 [del mese, ndr], dell’investimento nel mattone, e in qualche modo dei risultati dimostrabili agli altri per poter fare dei confronti e dei paragoni. Di fatto loro stanno dicendo che in queste cose non ci stanno bene, e non ci vogliono stare”».

  Parlando con Cecilia e Irene, e con tanti altri millennials che anche se non compaiono in articoli e interviste esistono e ci sono, lì fuori e ovunque, ho capito che partire per cercare altro non è un peccato, fuggire da dove non si sta bene non è una colpa, e scappare non è una vergogna. Basta solo conoscere ciò da cui si fugge, e sapere esattamente a che cosa non ci si vuole piegare. Con quello che si troverà dall’altra parte, poi, qualcosa si farà.

PS: Irene durante il suo Cammino ha realizzato un video, non in qualità di videomaker e fotografa ma da pellegrina immersa nei propri pensieri e a contatto con sé stessa. Lo pubblica per la prima volta insieme a noi di Palin.

di Palin.

 

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