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Qualcosa di ricco e strano. È questo che compiono le storie fantastiche

Si parla molto di weird, di sconfinamento dei generi, del nuovo peso del fantastico anche in Italia. 

Nel dibattito degli ultimi anni sul new italian weird e del rapporto tra scritture estreme e ipermodernità, un ruolo importante è giocato dal Novo Sconcertante Italico. In un incontro sull’argomento, svoltosi a Firenze il 22 settembre 2018, nell’ambito della manifestazione Firenze Rivista, organizzato e moderato da Francesco D’Isa, così parlava Mazza Galanti:

[…] Non l’horror, non la fantascienza, non il grottesco, non ci vuole nessuno di questi ingredienti sebbene tutti siano un ottimo e forse necessario viatico per raggiungere l’obiettivo. Il quale però, a mio avviso, consiste in altro, ovvero nello strappo di un’immaginazione capace di prendere la tangente, deviare, inseguire la direzione esorbitante senza tanti scrupoli.

Dopo quattro anni, l’introduzione del volume a cura di Edoardo Rialti e Dario Valentini sembra continuare su questa strada.

[…] La realtà e le storie diventano rette parallele o perpendicolari, finiscono bene o male, rassicurano la domanda sottesa: È vero? Dividiamo i racconti in generi, come altrettante finestre da cui affacciarsi sul mondo e noi stessi […] L’Anno del Fuoco Segreto non voleva solo additare le strade di una possibile fase nuova dell’orizzonte immaginativo condiviso, ma anche ribadire che in fondo la grande autentica letteratura è sempre sconcertante, e allo stesso tempo è tutta finzione…

C’è qualcosa di profondamente vero nella dichiarazione di Rialti e Valentini.

L’anno del fuoco segreto forza l’urgenza di una questione, attraverso autrici e autori diversi – variopinti in una caleidoscopica sinergia immaginifica – ovvero che ciò che in ogni tempo spinge a privilegiare l’equivoco è la polemica contro l’apodittica presunzione dell’univoco. E allora cercare uscite possibili, osservare nuovi punti, ingigantire e deformare.

Da Andrea Zandomeneghi a Luca Ricci, da Laura Pugno a Loredana Lipperini, da Luciano Funetta a Francesco D’Isa, il lettore di L’Anno del Fuoco Segreto potrà scegliere di perdersi o farsi condurre per mano; passare da storie interamente post-umane a racconti grotteschi e ibridi, miti ancestrali o novelle e storie antiche, messaggi che disturbano le frequenze della coscienza in una continua metamorfosi esplorativo di senso. E ancora Dario Valentini, Vanni Santoni, Roberto Recchioni, Edoardo Rialti, Andrea Morstabilini, Gabriele Merlini, Elena Giorgiana Mirabelli, Francesca Matteoni, Gregorio Magini, Claudio Kulesko, Carla Fronteddu, Viola Di Grado, Giovanni Ceccanti e Andrea Cassini

Ringrazio Dario Valentini e Edoardo Rialti per aver accettato di rispondere ad alcune domande e avermi raggiunto in questo spazio:

Che tipo di operazione avevate in mente con questa antologia? Da dove nasce L’Anno del Fuoco Segreto?

E.R: Gli inizi sono sempre difficili, notava Chaim Potok. La prima radice è da cercarsi anzitutto nella nostra scrittura, nella mia e in quella di Valentini, in ciò che amavano leggere e ciò desideravamo a nostra volta scrivere, dai collassi e le contaminazioni che abbiamo sempre avvertito in prospettive diverse eppure convergenti come decisivi per il nostro immaginario. Ben poco di programmatico o previo e tantomeno precettistico, in effetti. Abbiamo sempre amato una “regione” che vive appunto di sconfinamenti, laddove le diverse finestre con cui i generi si affacciano sul mondo guardano su un paesaggio capace di fonderle tutte, dove quella “certa nota” – ultimamente indicibile, come tutte le esperienze autentiche, eppure inseguibile nel suo moto – che coglievamo in voci così diverse pareva risuonare in qualcosa di ulteriore, che le tradisse e salvasse tutte, premendo per spingersi ancora più in là. Indistinti confini tra mondi diversi, scriveva già Calvino. Come tutti coloro che si cimentano con la narrativa, volevamo anzitutto scrivere ciò che avremmo voluto leggere. Saremo sempre più grati per ciò che abbiamo ricevuto che per quanto abbiamo cercato a nostra volta di offrire, ma è proprio questo che spinge a tentare ancora e ancora, almeno per quanto mi riguarda, con la narrativa primaria, con la traduzione, la critica. Ma questo è stato anche alimentato da un luogo e un tempo specifici e particolari, la trama di rapporti tra scrittori e critici ed editori anzitutto a Firenze, con storie e opzioni che ci precedono, dagli esperimenti di Mostro – un nome un programma – all’Indiscreto e non solo, percorsi che si sono sovrapposti ai nostri. abbiamo dunque deciso di coinvolgere altri nomi, più prossimi o meno, del panorama nazionale in una sfida che sentivamo decisiva per noi, curiosi del prisma che ne sarebbe emerso. Il tentativo ironico di fornire col nostro sottotitolo una versione “nostrana” del più ampio dibattito sullo strano e sconcertante in letteratura, su quel Weird che si fa risalire direttamente a Lovecraft e a chi ha poi raccolto la staffetta e che tuttavia comprende influenze ben più ampie nel tempo e lo spazio (Wyrd già nelle mitologie norrene è l’immane Destino tessuto dalle Norne), ammicca – un poco – scherzosamente allo Stilnovo sbocciato proprio a Firenze e al dibattito che a Firenze e non solo si è svolto negli ultimi anni, con prese di posizioni, distingui molto diversificati. Di qui il ciclo di racconti su Nazione Indiana prima, come un susseguirsi di storia attorno al fuoco in una lunga notte dinanzi al focolare, e poi la nuova avventura con Bompiani, arricchita da altre voci ancora, da altre prospettive sulla medesima sfida nella danza cosacca tra una dimora abbandonata e una sempre incompiuta che per Kafka tutti balliamo scavando sotto i piedi la nostra stessa fossa. Non sapevamo cosa scrittori e scrittrici, sceneggiatori di fumetti, raccontisti, studiose di genere ci avrebbero offerto, ed era proprio questo a interessarci, come ciascuno avrebbe reagito, attingendo alla variazione su un topos classico, ribaltandolo con l’ironia minimalista o attingendo al linguaggio delle nuove risorse digitali. Un tentativo che non è solo nostro, che altri hanno tentato o tentano, che si tratti di nomi celebri o corsari coraggiosi della piccola o media editoria. Il nostro resta anche per questo un congegno aperto, e siamo molti felici dei cammini che si sono incrociati col nostro, degli stimoli e delle integrazioni che stiamo già incontrando nei confronti con altre prospettive, nutrite di altre letture e sperimentazioni, e curiosi per quanti altri ci aspettano alle prossime svolte del crocevia.

D.V: L’operazione, come spesso rimarcato, è nata con l’idea di provare a superare contrapposizioni che ci stavano strette, come appunto quelle tra fantastico e realistico e tra prosa e poesia. Con l’idea che – e qui parafraso la nostra introduzione al volume – a un certo livello della nostra esistenza e della letteratura, certe contrapposizioni e domande nemmeno si pongono, e ciò che da vero spessore a una storia non è solo tutto ciò che in esso è taciuto, ma anche le sue possibilità alternative. L’eroe può salvare l’amata e ucciderla, partire e rimanere, uccidere il mostro e diventarlo. L’altra necessità che ci ha mosso è stata rimarcare come le intuizioni realistiche e fantastiche non solo possano convivere ma possano anche potenziarsi vicendevolmente. Quello che colpisce e commuove di più dei personaggi del Trono di Spade di George Martin o dell’Attacco dei Giganti di Hajime Isayama non sono gli estranei o i giganti ma l’umanità dei protagonisti, i loro momenti di gloria e miseria, i loro conflitti interiori, i loro inciampi, egoismi e dolcezze, la trama delle loro relazioni, tutto quello che sta dietro al momento in cui si sfoderano le spade piuttosto che le scene di battaglia. Allo stesso modo, trovo emozionante quando il fiume dell’immaginifico emerge in storie altrimenti realistiche, penso a Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki o a Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro o a Le particelle elementari di Michel Houellebecq in cui intuizioni quasi “magiche” o “fantascientifiche” fungono da catalizzatori per la reazione messa in moto dal substrato realistico e lo fanno bruciare in maniera ancora più brillante ed efficace.

La tensione che si sviluppa tra la dimensione  della  realtà  e dell’irrealtà, del tangibile e del non tangibile, non è da sempre alla base dell’impulso creativo e motore di narrazioni? A che cosa di realmente nuovo stiamo assistendo? 

E.R: L’arte compiuta ci getta sempre nel mezzo d’una verità, montalianamente, più vasta della porta che abbiamo appena varcato. “Come se un ardore celestiale/ si impadronisse a tratti degli oggetti più ottusi/ consacrando così un intervallo/ altrimenti irrilevante” nelle parole di Sylvia Plath, una delle nostre fate madrine senza dubbio. Un sentore inesorabile verso cui convergono non solo tutti i generi che come ricordava la Nobel Tokarczuk, dovrebbero servire alle librerie per orientare i lettori, entro certi limiti (chi mai si sognerebbe di mettere Il Maestro e Margherita esclusivamente negli scaffali del fantasy? Forse sarebbe il caso di iniziare a ragionare così per molti altri nomi)  ma certamente non librarsi sulla testa e l’immaginazione degli autori medesimi, ma persino strade apparentemente diverse come la prosa, la poesia, la traduzione. A una studentessa liceale che negli anni ‘90 domandava perché un popolo così decisivo per la storia del pensiero razionale come i Greci ricorresse costantemente a un substrato immaginativo mitico, con le sue infinite varianti, con le sue storie mostruose di incesti, stupri, tradimenti, abbandoni, rovesci, Calasso rispose chiedendole a sua volta se lei fosse così sicura di sapere cosa fosse reale. E il secolo alle nostre spalle si era aperto con la constatazione di Freud per cui, qualunque regione della coscienza su cui avesse posto il piede come un incerto Colombo, un poeta vi era già arrivato prima di lui. Sono due piccoli frammenti esemplari, in anni e prospettive diverse, del medesimo perenne interrogativo. La grande arte di qualsivoglia matrice, quale sia stato il suo punto di partenza o l’approdo mirato, e spesso superato inconsapevolmente, è sempre stata questo sguardo che si apre tra la veglia e il sogno, da Dante che si aggira pien di sonno nella Selva al Marcel di Proust che sente ripetere Aiace mentre cerca la nonna morta, e chi può dire davvero da dove giungano le immagini con cui cerchiamo di gettare, come possiamo, una confusa geometria sull’universo mentre vi avanziamo incespicando? Fantasia, realtà, la ricostruzione delle marce forzate nelle campagne napoleoniche in Russia, un party nazista mentre i bombardamenti su Berlino liberano gli animali dello zoo, la spigolosa adamantina bellezza di una Fata che ci rapisce per poi rigettarci in un mondo che è andato avanti di anni mentre per noi l’amore goduto nel Paese Periglioso è durato una notte sola, sono tutti tentativi di raccontare qualcosa che ci precede, comprende, supera. Lungi dall’essere una fuga escapistica o una scacchiera allegorica, il meraviglioso e il fantastico sono da sempre stati una modalità conoscitiva fondamentale.

La fantasia perché non sia come un cartaceo scenario di teatro dev’essere intrisa di memoria, di necessità, di realtà insomma,

scriveva proprio il Calvino che viene troppo spesso ridotto a simili giochi di prestigio ironici. Ma anche ciò che abbiamo spesso etichettato come mero “realismo” non è mai stato unicamente tale. Nelle parole di Flannery O’ Connor

“fondamentalmente, tutti i romanzieri sono esploratori e descrittori del reale, ma il realismo di ciascun romanziere dipenderà dalla sua idea dei limiti estremi della realtà. Il suo tipo di narrativa spingerà sempre i propri limiti verso l’esterno, verso i limiti del mistero, perché per questo tipo di scrittore il significato di una storia non si manifesta se non a partire da una profondità dove una motivazione e una psicologia adeguate, nonché le varie determinazioni, non abbiano più niente da offrire. A un simile scrittore interesserà di più ciò che non comprendiamo rispetto a ciò che comprendiamo. La possibilità gli interesserà di più della probabilità.”

Anche la nostra antologia è nata per guardare in questo maelstrom di possibilità. Tutto questo per ripercorrere – sebbene confusamente – una contrapposizione che al fondo non è mai stata invalicabile, che da sempre conosce ponti e sovrapposizioni. Certo è che negli ultimi decenni, nello sgretolarsi dell’illusione sulla “fine della Storia” e che i giocattoli luccicanti della tecnologia potessero esaurire le inquietudini sul senso dell’esistenza, nella pressione di enormi rivoluzioni antropologiche e scientifiche che minano antichi presunti binarismi in così tanti linguaggi e la fame di mitologie condivise, anche l’eco di vecchie dicotomie tra generi letterari si fanno sempre più flebili, tante voci contemporanee faticano a stendersi su quelli che avvertono comunque come altrettanti letti di Procuste, e attingono a fonti e ispirazioni e soluzioni diverse per la propria cechia espressiva. Gli interrogativi culturali apportati da neuroscienze, psichedelia, contestazioni ai tradizionali – e ancora una volta spesso molto meno antichi di quanto si creda – modelli di genere, sono punte dell’iceberg che affiora dal mare immenso della nuova società digitale, che di per sé porta all’esplosione delle bolle, direbbe Andrea Zandomeneghi, alla fusione dei linguaggi. Tutto ciò è ultimamente impossibile a definirsi, proprio perché lo stiamo vivendo, manifesti e programmi sarebbero una ulteriore prigione rassicurante, sebbene si possa avvertire la forza del moto della corrente. Proprio per questo apprezzo molto l’espressione che usavi nell’introduzione, l’apodittica presunzione dell’univoco. La poesia questo in fondo l’ha sempre saputo e il nostro libro si apre con una citazione di Nina Cassian per poi chiudersi deliberatamente a ritroso e al tempo stesso “avanti”, con una battuta dai Demoni di Dostoevskij.

D.V: Il bordo tagliente tra la realtà e l’irrealtà è senza dubbio uno spazio in cui mi piace ballare e sicuramente fecondo di stimoli ma vorrei chiarire che non preferisco nessuno dei due lati della lama, li amo entrambi. Non mi definirei mai uno “scrittore di fantastico”. Al massimo uno scrittore e basta. Odierei essere costretto in un genere, voglio essere libero di fare con la mia scrittura tutto e il contrario di tutto, spaziare tra le polarità e percorrere lo spettro di quello che c’è in mezzo. Come in poesia non vengono considerati più fantastici Baudelaire di Ritsos o Cristina Campo di Ashbery.  Come in musica è controproducente e disorientante cercare di micro-definire esattamente che genere faccia questa o quella band, quando si potrebbe godere delle loro canzoni e basta. Forse il punto non è tanto che stiamo assistendo a qualcosa di nuovo ma che è sempre meno possibile ignorare il desiderio di chi scrive e legge di essere libero dalle etichette. La frontiera espressiva dello sconfinamento ci precede e ci supera, la speranza è che sia sempre più libera dagli schematismi, ci si chieda sempre meno il nome preciso, le coordinate esatte di quello che stiamo leggendo o scrivendo e si pensi semplicemente: è vero! A tal proposito sono davvero felice che ci abbia accolto la casa editrice che si occupa di Tolkien e di Tondelli senza soluzione di continuità. 

Ci sono dei testi profondamente post-umani, a volte une vera e proprio zoomemesi: un divenire come effetto di scambio e ibridazione continuo tra uomo animale, tra uomo e cosa, rimettendo continuamente in discussione la distanza tra i soggetti, penso al testo di Vanni Santoni, di Elena Giorgiana Mirabelli, ma anche al tuo Dario, Il drago delle rose

D.V: Il mio racconto che intreccia un concerto quasi “Manniano”, con le scene di un rapporto di coppia – spero – “Carveriano” che però è contaminato da un elemento “altro”, diciamo “naturale” come nucleo di partenza ma poi “innaturale” nella sua evoluzione. Le distanze tra i protagonisti, che rappresentano i due mondi, si accorciano da entrambi i lati e la compromissione e il compromesso è del mondo “altro” con il mondo umano quanto viceversa. Credo che – al di là dei soggetti che si sceglie di coinvolgere nell’ibridazione – in fondo in letteratura come in musica e in amore tutto sia relazione e la relazione sia tutto. E che in fondo ogni relazione significativa sia sempre con un “alieno” qualcuno che nel profondo è radicalmente altro da noi e la cui profondità è tanto più insondabile quanto più desideriamo comprenderla. E allora sapere che non si può mappare completamente la solitudine dell’altro può diventare una dichiarazione d’amore.

E.R: “Ho allestito la tana e sembra riuscita bene.” Anche in questo gli occhi sbarrati di Kafka fissavano già una soglia tra dimensioni, tra ciò che sta sotto o sopra la nostra coscienza quotidiana di esseri umani, in cui la letteratura e il pensiero contemporaneo non hanno fatto che addentrarsi sempre più, in uno spazio ancora una volta nuovo per i dibattiti scientifici che lo incalzano e antico come le più profonde intuizioni dell’espressività umana, dalle grotte preistoriche dove si riproducono i cammini delle stelle e la forza totemica degli animali-guida. Ogni metamorfosi cambia colui che conosce mentre conosce, e la letteratura ha sempre continuato a raccontarlo. Il percorso del libro si apre a sua volta con la commistione di caccia-pesca, sesso, iniziazione misterica del racconto di Andrea Zandomeneghi, e persino nel mio tentativo narrativo, si quid est, ricompare il tema del sacrificio come ritualizzazione del rapporto predatore-preda e della sua interscambiabilità. Ci è stata fatta notare anche la costante presenza del mondo vegetale, da Laura Pugno allo stesso Valentini a Matteoni e ciò ci riporterebbe a quanto tentativo di accennare sulla Selva poco prima. Come potrebbe essere diversamente, verrebbe da chiedersi, Anche in questo caso, ciò che più mi colpisce e interessa in simili rilevazioni, nella tua domanda e in ciò che la tua esperienza di lettore prima ancora “accusa” nel susseguirsi dei testi, è come riconsegni a noi per primi, a noi curatori, chiavi di letture, fili rossi, connessioni che non erano affatto nelle nostre intenzioni previe e che solo adesso, in quel completamento mai finito che è l’assunzione dell’opera e della sua vita conscia e inconscia nello sguardo di ogni diverso lettore, si palesa. Paradossalmente, se è vero che un libro inizia a essere letto solo dopo aver chiuso l’ultima pagina, qualcosa di simile si potrebbe persino dire per la curatela medesima. Quanto notavamo via via che pubblicavamo le storie online o le raccoglievamo per l’edizione a stampa, si approfondisce ulteriormente, e noi per primi possiamo scoprire cose che non avevamo forse neppure pensato. Uno delle dimensioni che più attendo dal confronto con lettori e critici.     

Pensate che alcune categorie tipicamente novecentesche, che continuano ad essere utilizzate per mappare la narrativa italiana, siano ormai insufficienti? Quale pensate sia il più grande limite?

E.R: Credo lo fossero già nel ‘900 stesso italiano che al netto di talune scuole imperanti e vulgate asfittiche, certamente tra le due guerre e anche dopo (si pensi a tutto il dibattito sul realismo nella neonata Repubblica), è sempre stato più vasto, inquieto, percorso dal decadimento cognitivo di Gadda e la sua cognizione dell’orrore, o la fascinazione per il tribalismo mitico di Pavese e Pasolini. Non a caso molti autori contemporanei si richiamano a personalità che a loro giudizio hanno fatto da coraggiosi battistrada, istituendo delle galassie private di riferimenti, un Kamidana che va da Papini a Campo, da Morselli a Ortese, un canone altro o una tradizione che sono sempre positivamente “inventate” a posteriori. Persino la riduzione del fantastico nostrano a mera risorsa ironica, che così esorcizzerebbe un più o meno palese snobismo verso il fantastico puro, relegato con disprezzo alle opere di consumo popolare, che siano italiane o estere, sebbene intercetti alcune gravi miopie del passato panorama culturale italiano (si pensi a cosa ne è nato per l’affaire Tolkien) che perdurano in taluni ambiti o possono essere contro-alimentate da una reazione a ghetto difensiva e conservatoristica di certi sedicenti puristi, fatica a cogliere o incasella troppo seccamente fermenti e correnti che hanno da sempre percorso la nostra storia culturale, a partire dalla Commedia stessa, che non a caso viene citata oggi con ammirazione come “tatuaggio dell’anima” da personalità come Mircea Cartarescu che per diversi protagonisti della nostra stessa antologia costituisce un punti di ispirazione e riferimento. Altro elemento è la già citata rivoluzione della galassia digitale, che a sua volta stimola la fusione tra diverse fonti di ispirazione, apparentemente lontanissime. Pure qui, distinzioni e contrapposizioni tra riferimenti “alti e bassi” sono etichette stantie. Nuove generazioni di autori e autrici si sono formate tanto leggendo le serate dai Guermantes di Proust che le peripezie della Squadra dei Falchi del Berserk di Miura. Dipende ancora una volta dal risultato che siamo in grado di cavarne. Grazie agli dèi, i generi ci saranno sempre, come i giochi e gli sport, con le loro regole, perchè in diversi momenti della vita interiore avvertiremo sempre il bisogno di immergerci in questa o quella prospettiva, che sia quella di Knausgaard, Ferrante, Siti, l’africa mitica di Marlon James o la Bible Belt di Bageant, così come sentiremo la necessità magari di incanalare i sentimenti in un sonetto o un poema epico. Al tempo stesso tante voci contemporanee già attestano senza proclami particolari ma con la vita stessa dei loro libri che la guerra tra fantastico e realistico e le loro rese stilistiche è finita, che solo a limitarci all’Italia è stata molto provinciale, e spesso dantescamente imperniata su un’aiuola da cui bastava alzare la testa per sorprendere un paesaggio ben più vasto già immediatamente attorno a noi.

D.V: Per parafrasare David Foster Wallace, forse la realtà non solo non è più quella di Tolstoj, non solo forse non lo è mai stata, ma è anche – e questo forse sempre di più – completamente pazza. E per questo per raccontarla potrebbe servire serve una letteratura che sia altrettanto deragliata, abbacinante e libera.

Per concludere, come definireste il Novo Sconcertante Italico?

D.V: Potendo non lo definirei. Vorrei che fosse qualcosa che quando si prova a dargli un nome, sia già fuggito, già altrove. Una costante e pulsante anomalia rispetto a se stesso e credo che nel complessivo caleidoscopio dei tentativi che compongono questa raccolta si possa trovare proprio questo. I vari approcci si sconfessano e confermano e infine compongono qualcosa di più vasto e  speriamo inaspettato, che possa portare il lettore dove non avrebbe immaginato o dove da solo non sarebbe mai andato.

E.R: “Nessuno è riuscito a definire la prosa – essere elusivo, sfuggente, indefinito nella sua espansione. Tutto è prosa, finché non appare qualcosa che potrebbe anche non esserlo, per esempio il canto. Ma presto si scopre che il canto potrebbe essere una mascheratura del fischio. Allora uscire dalla prosa sarebbe impossibile?” Mi è molto piaciuta questa riflessione di Calasso nel recente L’animale nella foresta e nella sua elusività sarei tentato di farla mia come risposta. Si dibatte molto su categorie come weird, new weird, eccetera, nella loro possibile mutazione ed espansione e nei rapporti più o meno fitti con le loro origini storiche. Ma i generi quantomeno per noi sono e restano soglie, non ghetti, tentativi per scalare la stessa montagna da più lati, o di balzar su improvvisamente in virtù di un volo che li assomma. In ogni opera interessante i linguaggi si alternano, e non esiste letteratura ascrivibile a un genere puro, esclusivo. Il tempio troppo adorno per il dio si scopre abbandonato dal dio stesso che fugge altrove, come nel Libro dei Re o nell’assedio di Giuseppe Flavio. Questo è ancor più vero laddove, come nel nostro tentativo, abbiamo voluto chiamare a raccolta diverse voci, generazioni, sguardi proprio per guardare tutti assieme la sfida oscura e spiazzante che tanta letteratura contemporanea avverte, quella di attingere a risorse diverse, a diverse verità, per esprimere qualcosa più pazzo o saggio dei nostri previ modelli immaginativi, che pure costituisce un tributo a ciascuno di essi proprio perché li contamina, li fa franare. Nelle parole di Tokarczuk,

“ci manca il linguaggio, ci mancano i punti di vista, le metafore, i miti e le nuove favole. Eppure assistiamo a frequenti tentativi di imbrigliare in immaginari del futuro narrazioni arrugginite e anacronistiche che non possono adattarsi al futuro, senza dubbio partendo dal presupposto che un vecchio qualcosa è meglio di un nuovo niente, o cercando in questo modo di affrontare i limiti dei nostri stessi orizzonti. In una parola, ci mancano nuovi modi di raccontare il mondo.”

E li stiamo cercando, oggi come ieri. L’altra immagine cui sento di poter ricorrere per la nostra antologia – proprio per evitare qualunque velleità programmatica – è quella dell’incantesimo, della sequenza di incantesimi. Ogni firma dell’Anno è stata chiamata proprio a questo, a scagliare il proprio incantesimo, crudele o ironico, struggente o brutale, per intrappolare in un cerchio tracciato per terra quel fantasma elusivo che balbettando chiamiamo realtà. Come disse C. Lewis del Gormeghast di Peake,

“prima non hai mai letto niente del genere, dopo lo vedi dappertutto.”

Credo sia vero di ogni tentativo artistico riuscito, della sua tensione costante verso un oltre che pure è già dentro di noi.

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