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«è un fatto di attitudine, una commistione disordinata e anarchica»

Nel mio paese d’origine, situato più o meno nel cuore dell’entroterra abruzzese, c’è un locale, un cocktail bar storico, che si chiama Divertone. Che è uno di quei posti di cui da bambino fatichi a comprendere le fattezze e l’identità, e anche se ci provi alla fine ci rinunci perché quelle sono troppo complesse o distanti per essere comprese.

Già il nome mi istillava un dubbio, quando avevo nove anni: la pronuncia era Divertuàn, all’inglese, o Divertone, all’italiana? E, in italiano, che cosa significava ”Divertone”?

Crescendo, poi, ho imparato ad osservare quel luogo e le sue dinamiche, che sono le dinamiche quotidiane di un tessuto sociale che racconta la provincia in ogni sua sfumatura, dalla più verace alla più cosmopolita. Ed è da lì, da quel tessuto quotidiano ma sempre nuovo, sottoposto a un ricambio continuo di vite ed esperienze, che è venuto fuori Uccio Pan.

La giovane vita di Uccio Pan (Masciulli Edizioni, 2022) di Giorgio Napoletano

Ne è uscito una prima volta, in maniera ufficiale e definitiva, come protagonista del romanzo La giovane vita di Uccio Pan (Masciulli Edizioni, 2022) di Giorgio Napoletano – che poi è anche l’host del Divertone e che con Uccio Pan è al romanzo d’esordio (ma alla terza pubblicazione) – , e poi non ha più smesso di venirne fuori, tante sono le volte che nel corso del racconto raggiunge, abita e lascia quel posto.

Certo, va detto che nel romanzo il Divertone non c’è; c’è, al massimo, un luogo che gli somiglia, così come ci sono molti altri luoghi che somigliano a dei luoghi reali e che reali poi finiscono per diventarlo. E la storia non mira a raccontare nulla di reale, al massimo qualcosa di verosimile; come riporta la sinossi ufficiale dell’opera:

«Uccio è un ragazzo nato nel 1985 che ripercorre su uno sfondo di storia reale i processi intimi e universali che lo hanno accompagnato a cavallo dei due secoli e fino all’età adulta».

Uccio, che è protagonista e voce narrante, è in realtà un personaggio nient’affatto speciale, piuttosto comune e ”fallibile”, come lo definisce il suo autore. Allora chiedo a lui, a Giorgio: fallibile in che senso?

Nel senso che è esposto alla sconfitta, e lo è perché si preoccupa per gli altri più di quanto faccia per se stesso. È per questo che definisco questo libro un romanzo corale: Uccio dà sempre priorità a tutti quelli che gli si muovono attorno, che poi sono gli altri personaggi della storia, e rinuncia addirittura ai suoi bisogni emotivi pur di non condizionare la vita e la libertà altrui.

Inoltre non è un libro indulgente con il protagonista, non lo salva dall’errore, neanche quando questo potrebbe essere giustificato da motivazioni nobili.

Un ragazzo di provincia esposto alla sconfitta, dunque. Ma lui ad un certo punto fa una scelta e la provincia la lascia. Questo perché, in certe vite, può essere la provincia stessa a imporre una sconfitta?

È vero, lui va a Roma. La sua però non è un’ascesa, non passa dall’essere provinciale all’essere capitolino. Non lascia la provincia per innalzarsi, anzi, vive la grande città con lo stesso disincanto con cui si muove nella sua regione. Chiaramente a muoverlo è una grande opportunità, poiché intravede una possibilità sul piano artistico e professionale, ma non va a Roma con occhi meravigliati; caratterialmente è già predisposto ad avere una visione priva di strategia, e si muove con la consapevolezza di ciò che vuole fare.

Quindi questo è un libro che racconta molto bene una certa identità di provincia ma non è un romanzo di provincia?

Sì, io volevo restituire quell’identità che nel tempo è andata perdendosi di provincia, e allo stesso tempo ho cercato di far vedere come si possa avere un atteggiamento più cosmopolita, senza caricare di sovrastrutture culturali i miei personaggi, che sono personaggi ordinari, semplicissimi, ma a cui ho dato questo taglio perché è quello con cui mi sono formato io, dunque per mostrare che un atteggiamento universale è possibile.

C’è un bel grado di osservazione del reale, del dettaglio delle cose, di quelle pieghe che raccontano la vita con inquadrature strettissime, zoomando sul particolare che è sotto gli occhi di tutti ma che sfugge agli sguardi meno sensibili. A dimostrazione del fatto che tanti elementi apparentemente giudicabili non interessanti o non utili a leggere il mondo, se decifrati, possono diventare il codice più diretto per capire e orientarsi:

L’austerità e il perbenismo iper borghese degli adulti non mi piaceva affatto e crescendo me ne sono reso conto ancora di più: riguardando indietro m’appare tutto come se quella generazione di adulti si auspicasse un ritorno all’ordine che spegnesse il caos delle loro decadi fervide, dominate da enormi spinte romantiche, passionali, politiche e sociali. Questa ristrettezza d’orizzonte lo palesavano con grande ostentazione e istillazioni di faziosità goffissima. Le loro polo rosa ficcate con ardore nei folli pantaloni a vita alta mi provocavano un certo imbarazzo, e li vedevo molto più ingenui dell’emisfero opposto rappresentato dai ragazzi. Mi facevano schifo anche gli orologi con quello stramaledetto cinturino marrone sottilissimo di pelle pitonata.

Lo sguardo dello scrittore si sovrappone allo sguardo del bambino, poiché la matrice è la stessa, ma con in più la capacità di trasformare quelle immagini, catturate e cristallizzate, in informazioni.

Ciò mi induce a pensare che la matrice, appunto, della tua scrittura coincida con questa capacità di osservazione e restituzione, e mi chiedo allora se alla base di questo libro ci fosse l’esigenza di raccontare la storia che è raccontata, che, abbiamo detto, è una storia normale di personaggi normali, o se la trama è nata al servizio di questo voler osservare e restituire il reale.

La volontà di raccontare una storia c’era, ma è vero che ho scritto questo libro volendo dare tanto risalto alla resa atmosferica, alla circostanza, alla sensibilità tattile e visiva, per invitare il lettore all’immedesimazione. L’idea di trama era più un canovaccio, perché dando uno sfondo di storia reale – la Storia che fa da sfondo è quella dell’Italia che tutti abbiamo vissuto – dovevano combaciare le cose, i fermenti, le idee, gli incontri.

Infatti è una trama non pirotecnica, che racconta tante cose e che certamente ha dei punti di svolta che non sono però mai pirotecnici.

È una trama che va veloce e che copre un lasso di tempo di vent’anni (dal 1995 al 2015) che scorrono in forma quasi diaristica, capitolo dopo capitolo. Quest’alternanza di alcuni dettagli catturati e lo scorrere a ritmo sostenuto della trama richiama un po’ dei meccanismi cinematografici, tirati in ballo anche da alcune posture che a volte assume la scrittura.

Sì, infatti. L’influenza cinematografica è addirittura maggiore di quella letteraria, nel caso di questo libro. Letteratura e cinema convivono costantemente tra le mie influenze e nella mia scrittura.

È proprio la mia immaginazione a funzionare in modo molto cinematografico; ma non è un artificio, è un processo  molto spontaneo.

E la lingua?

Molto spontanea anche quella. O almeno è così che ho provato a renderla, senza artifici. Tant’è che spesso ho sacrificato un po’ di cura etimologica per lasciare spazio a formule dialettali o ibride che si avvicinassero maggiormente al lettore.

Post Scriptum

Questa volta, per la prima volta, il caffè con l’autore l’ho preso davvero. Letteralmente, intendo. E ho avuto la riprova, accompagnato in questa percezione dal mio interlocutore, di come davvero luoghi come il bar sappiano, con il loro essere «disordinati e anarchici», cogliere una parte di verità sugli individui. Una parte molto piccola, intendiamoci, ma di quelle che fanno la differenza tra il non capirci niente e il capire qualcosa. Come una polo ficcata nei pantaloni o un cinturino di pelle pitonata.

Qui il libro

Qui gli altri caffè

La giovane vita di Uccio Pan (Masciulli Edizioni, 2022) di Giorgio Napoletano

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