In molte narrazioni, da Cappuccetto rosso alla Bibbia ai Malavoglia, l’infrazione di un divieto o di un ordine determina la rottura di un equilibrio iniziale, seppur labile, e inaugura una sequenza di azioni o di peripezie attraverso cui i personaggi possano faticosamente raggiungere una nuova situazione di equilibrio.

Così non accade, invece, in Una giuria di sole donne (1917) di Susan Glaspell[1].  

Nel racconto, infatti, questo schema, rubato impudentemente a Propp[2], è di fatto ribaltato, poiché l’infrazione di un ordine arriva nel testo non come evento perturbatore, ma come atto finale, portatore di un equilibrio nuovo e soglia del non-più-narrabile. Il motivo è chiaro, nella lettura: Glaspell, per raccontare una storia di donne, non ha potuto iniziare con la descrizione di un contesto di equilibrio, semplicemente perché nel sistema patriarcale il disequilibrio è endemico. Un dato di fatto.

D’altra parte, questo tema emerge già nel titolo, che in lingua originale è A Jury of Her Peers: l’attenzione posta sulla parità, piuttosto che sul genere come nella traduzione italiana, non fa che sottolineare come il rapporto tra indagata e inquirenti sia sostanzialmente impari.

Ma procediamo con ordine.

Il racconto di Glaspell, ambientato nei primi del Novecento in America, è incentrato sulle indagini per l’omicidio di John Wright, strangolato nel suo stesso letto. A tutti è evidente che l’assassina sia la moglie del defunto, Minnie, ma per incriminarla servono prove e un movente.

Si recano alla casa, in cerca di indizi, lo sceriffo Peters e il contadino Hale; portando con sé le mogli, a cui viene affidato il compito di prendere vestiti da portare a Minnie in prigione. Le due donne, a differenza dei mariti e del pubblico ministero, pongono la loro attenzione alla cucina e ai piccoli lavori domestici come il cucito, suscitando lo sprezzo e la derisione degli uomini che non nascondono di ritenere le occupazioni “femminili” marginali e irrilevanti.

Martha Hale e la signora Peters, invece, si muovono con disilnvoltura e senza indifferenza in questo spazio residuale: l’unico che viene loro riconosciuto, di fatto. Per questo, riescono a leggere, nei lavori di casa lasciati a metà o continuati in modo caotico e febbrile, una narrazione a cui gli uomini non hanno accesso. Vedono le tracce di un profondo e improvviso turbamento, e scoprono il cadavere del canarino di Minnie.

Riescono a intuire come l’uccellino sia stato aggressivamente ucciso da Wright, e come questa morte abbia innescato in Minnie una reazione apparentemente esagerata. Ma capiscono anche che la morte dell’uccellino abbia portato alla luce la morte simbolica della donna:

Percorse lentamente la cucina con lo sguardo, come se ora comprendesse ciò che quella stanza aveva significato in tanti anni.

«No, a Wright non doveva piacere l’uccellino», continuò. «Cantava. Anche la moglie cantava. Li ha fatti smettere tutti e due» (p. 48)

Qui la struttura del racconto poliziesco si incrina definitivamente, perché la dichiarazione di colpevolezza della sospettata e l’eventuale processo vengono esclusi dalla storia, mentre l’autrice chiude il racconto su una scena di insabbiamento delle indagini. Il culmine della narrazione, infatti, è la decisione della signora Peters, inizialmente titubante, di cercare di occultare, guidata da un accordo silenzioso con Martha, il corpo morto dell’uccellino: unico indizio della colpevolezza di Minnie.

Non a caso molti hanno chiamato in causa, sia per questo racconto sia per la pièce teatrale da cui è tratto, l’Antigone di Sofocle,[3] perché anche qui c’è una netta contrapposizione fra due tipi di norma: la legge scritta e imposta dagli uomini e il senso di giustizia di chi quella legge la subisce.

La trasgressione della legge, dunque, diventa un atto di insubordinazione (si badi bene: non ancora insurrezione) contro un sistema oppressivo, complice l’incomunicabilità dei rispettivi linguaggi.

Minnie, con il matrimonio, ha perso gradualmente la propria identità – come sottolinea più volte Martha Hale, la sola persona a chiamarla con il suo nome da nubile: John Wright, con il suo comportamento gelido, la sua indole avara, austera e cupa, è anche lui carnefice di un delitto, che però rimane nell’ombra perché istituzionalizzato.

Tutta l’identità delle donne del racconto, infatti, si riduce ai ruoli di moglie (accondiscentente e sommessa), di padrona di casa (rigorosamente ordinata e zelante) e, secondariamente, di madre. Minnie si trova letteralmente improgionata in una realtà che non le appartiene e, non potendosi rispecchiare in questi ruoli sociali, proietta tutto il suo io nella figura dell’uccellino.

La donna in questa posizione, poi, è ineluttabilmente condannata alla solitudine, così che ognuna dei personaggi femminili, fino a quel momento, si è creduta abbandonata ai propri affanni e ai propri dolori; ma ritrovandosi lì, a leggere i segni di una vita così affine e di così simili piccoli soprusi, finalmente nasce un senso di appartenenza e di solidarietà.

«Avrei dovuto capire che aveva bisogno di aiuto! Glielo dico io, è assurdo, signora Peters. Viviamo vicine, eppure siamo così lontane. E dobbiamo tutte sopportare le stesse cose… a guardarci non sembra, ma sono le stesse cose! Se non fosse che – perché io e lei lo capiamo? Perché sappiamo… quello che sappiamo adesso?» (p. 50)

È chiaro che l’intento delle donne, nel nascondere il canarino, non vuole essere rivoluzionario: il processo probabilmente si terrà comunque, i rapporti di forza fra le protagoniste e i loro mariti non cambieranno, ed esse continueranno ad adattarsi ai ruoli loro assegnati. L’equilibrio nuovo determinato dall’infrazione, quindi, è ancora lontano da una rivendicazione di parità di genere.

Eppure, la violazione di una legge che vede solo una parte della verità è autenticamente sovversiva nel momento in cui i confini soffocanti entro cui sono costrette le donne riescono a diventare un’area di liberazione, di riconoscimento reciproco e di tacita sorellanza.

La forza delle donne di questo racconto, infatti, risiede nella capacità di convertire lo spazio fisico e metaforico della loro segregazione in uno spazio di resistenza.

articolo a cura di Chiara Schirato


[1] Ho letto e riflettuto su questo racconto grazie agli incontri su femminismo e letteratura organizzati dal collettivo l’Altrosessuale: per questo (e non solo) li ringrazio.

L’edizione italiana, da cui sono riprese le citazioni è: S. Glaspell, Una giuria di sole donne, Palermo, Sellerio Editore, 2022.

[2] V. J. Propp, Morfologia della fiaba, a cura di G. L. Bravo, Torino, Einaudi, 2000.

[3] Vd. p.e. M. Angel, Susan Glaspell’s Trifles and A Jury of Her Peers: Woman Abuse in a Literary and Legal Context, in «Buffalo Law Review», vol. 45, n. 3, pp. 779-844.

Reperibile su https://digitalcommons.law.buffalo.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1422&context=buffalolawreview (consultato il 08/04/2023)


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