Il ritorno dei Nobraino. Una cronaca dal sottopalco

Coriandoli gialli e rosa sparati da grossi cannoni; ombrelloni da mare, a righe, roteanti; una palla luminosa che si muove nel buio; una fune fissata a un traliccio a fare da liana, un estintore azionato sulla folla. Potrebbe essere la descrizione di uno spettacolo teatrale o di un’esibizione circense, e in parte lo è.

I Nobraino tornano e lo fanno in grande stile. Dopo circa sei anni dalla sospensione dell’attività della band i quattro (tre più uno, manca all’appello il bassista Matteo Bartolini, sostituito) si ritrovano sul palco davanti al loro pubblico più affezionato, che per la grande risposta data ha costretto a sdoppiare quella che era stata pensata come una data unica, immaginata come una specie di raduno, un ritrovo dopo un lungo periodo di lontananza, ma anche come un esperimento, forse una prova. Sul bilancio finale c’è poco da dire: è stato un successo.

Kruger, Nestor, Vix e Barba sembrano non aver mai smesso di suonare assieme in giro per l’Italia, e quando si ritrovano a farlo in un Estragon Club sold-out accade esattamente quello che Lorenzo Kruger, voce del gruppo, descrive dando la sua definizione di concerto: uno spettacolo che vada oltre l’esibizione musicale, che offra qualcosa di più: spettacolo, corpo, performance.

Ecco allora che piogge di coriandoli e tuffi sulla folla (si sono contati almeno dieci stage diving) diventano componenti essenziali (nel senso di ”contenere l’essenza”) del concerto one shot (con un punto interrogativo d’obbligo, però, dopo alcune dichiarazioni fatte da Kruger su non meglio precisati scenari futuri) dei riuniti Nobraino.

 Il ritorno dei Nobraino

Non che in passato la band non si esibisse con lo stesso stile, ma una data unica, anche se poi si sdoppia, è un accadimento che inevitabilmente chiama a concentrare, e intensificare, consuetudini e modi di fare.

La scaletta presentata dalla band è lunga e corposa, e com’è ovvio che sia prevede tutti i pezzi di maggior successo. Io c’ero, ma raccontare o riassumere l’intero concerto sarebbe un’operazione troppo difficile per me; mi limiterò perciò a toccare tre punti, tre momenti-chiave legati ad altrettanti brani. Tre affreschi del ritorno dei Nobraino.

Primo affresco: Tradimentuz. Al momento di annunciare il brano Kruger avverte la folla che scenderà a pogare, come ai vecchi tempi. Chiede luci accese, e chiede a tutti il pogo, quello vero, quello delle piazze nelle sere d’estate. Così scende, e tra la sua gente comincia a cantare nel pieno di un contatto fisico cercato, ripetuto e reiterato, tanto a lungo mancato. Un contatto diretto e sfrontato, che assume la forma di uno scambio violento solo in apparenza, in realtà intimo e confidenziale.

Kruger poga mentre va in giro in mezzo alla folla, si sposta a destra, torna al centro, poi va a sinistra, e lì, mentre avanza e sbraccia, spinge e si fa spingere, cerca con lo sguardo una persona, una in particolare, e quando la trova: la bacia.

Con una diversa prontezza di riflessi avrei potuto immortalare da vicino il bacio tra Lorenzo Kruger e sua moglie, avvenuto proprio davanti ai miei occhi, ma il telefono era nella tasca dei pantaloni e la concitazione di quel momento così alta che solamente dopo ho realizzato che mi sarebbe toccato raccontare la scena a parole. Avrei preferito immortalarla perché è stata una bella scena, più di quanto si riesca a dire ora, con tutti noi lì intorno che, dopo aver rozzamente spinto Kruger come nel mezzo di un primitivo rituale, ci siamo fermati per un attimo – sospeso e dilatato –  in un cerchio spontaneo, a incorniciare una scena in così netto contrasto con quanto accaduto fino a quel momento. O forse no, essendo in fondo entrambi due riti d’unione.

Secondo affresco: Il mangiabandiere. Come al solito Kruger sceglie la vittima più generosa: quella con più capelli da tagliare. Un po’ per una sorta di sadismo intrinseco alla performance che da sempre accompagna la canzone – rasare a zero un (o una) fan, in richiamo alla pratica della leva militare – un po’ perché in questo modo il concetto appare ancora più forte e chiaro, anche visivamente. Dunque il cantante accoglie, fra le varie candidature, quella di un ragazzo con una lunga e folta chioma, lo fa salire sul palco, gli fa sfilare la camicia, gliela mette a mo’ di telo da barbiere e lo fa posizionare davanti al microfono. Poi prende la macchinetta, la accende e dice al ragazzo: «Canta». Ma quello, povero, è talmente agitato ed emozionato che trema e balbetta e si scorda la canzone. Allora arriva in suo soccorso Barbatosta, il trombettista della band, ma in realtà arriviamo in suo soccorso tutti noi che stiamo lì sotto a guardare. La cantiamo tutti insieme, mentre Kruger rasa a zero quel ragazzo che, alla fine, scoppia a piangere – un po’ per gioia un po’ per tristezza, son sicuro, perché sento salirmi alla gola un pianto simile: di gioia per essere lì a condividere un momento tanto intenso sbeffeggiando uomini cinici, violenti e grotteschi, e di tristezza per dover essere lì a cantare una critica che ancora serve.

La liturgia termina. Il ragazzo, in lacrime, abbraccia il frontman, che lo riabbraccia e gli dà un bacio paterno sulla testa ora rasata. È un momento di affetto, che non coinvolge solo loro due ma tutti i presenti, che guardano e applaudono, alcuni piangono, altri urlano bravi, o grazie.

Poi la ricanta Kruger, la canzone. Stavolta dritta e precisa, sempre all’unisono col suo pubblico, che ci mette ancora più forza, perché la simbologia ha evocato il senso più profondo del testo, ha compattato le singole empatie in un’unica, grande voce.

L’ultimo affresco è dedicato a I signori della corte, e arriva alla fine, proprio come il brano, lasciato ad aleggiare sopra le teste ansanti e in festa per tutta la sera, continuamente evocato o richiesto a gran fiato.

I signori della corte sancisce il saluto finale, che è un grazie reciproco. Kruger costruisce l’ultimo, perfetto climax della serata, tirando fuori un estintore a Co2 durante la canzone per poi, sul coro ripetitivo e ossessivo di «io non sono matto, io non sono matto» rimuovere il blocco di sicurezza e azionare il getto sulla folla.

Nessuno dei presenti, forse, si aspettava tutto quel che è accaduto all’Estragon Club.

L’impresa più ardua, che in fondo è quella di meravigliare e sorprendere non il pubblico più indifferente ma quello che più affezionato, guardando le espressioni delle facce coi nasi all’insù e i palmi sempre rivolti in alto a fare da binario, sostegno e abbraccio, è riuscita oltre ogni possibile previsione. C’è stata unione e c’è stato l’affetto di una lunga amicizia che si riscopre. Sarà stato l’effetto di una passione che si ritrova ad esplodere con veemenza e tutta in un colpo dopo anni, ma i Nobraino sono sembrati sinceri in ogni cosa, e ancor più emozionati, a tratti commossi per le dimensioni di quell’affetto ritrovato.

I Nobraino hanno infranto per tutto il tempo il muro, la barriera che divide il palco dalla folla, perché quella era una folla più famigliare che mai.

Bonus track: Kruger parla, verso la fine del concerto, di realtà provinciali. Ne parla in riferimento alla Romagna, introducendo la canzone Bella Polkona, dedicata alla loro Romagna.  Quell’attimo diventa il momento buono per riflettere su cosa sia provinciale, sul significato dato al termine dalla band, che dice di sentirsi ”provinciale” come la Romagna, la loro madre, il loro luogo.

La loro Romagna è un posto, dicono, da cui si separano sempre con tristezza, ma da cui partono volentieri per recarsi in frammenti d’Italia che hanno la stessa fibra del frammento che loro vivono e abitano. Un posto insomma da cui allontanarsi con piacere solo per andare in posti che ne condividono lo spirito e l’essenza, abitati da persone non accecate dalla centralità, dal blasone metropolitano e da quella FOMO – Fear Of Missing Out (la paura di essere esclusi) – tutta contemporanea che impone di essere in un certo luogo per poter dire di essere davvero da qualche parte, e di essere qualcuno.

È interessante, perché Kruger, Nestor, Vix e Barba, quando suonano e si esibiscono, diventano un animale dalle sembianze e dalle movenze proprio da provincia, un animale con un DNA che combacia con quelli di certe realtà più esterne, cioè periferiche, e più interne, cioè d’entroterra.

Di quelle insomma in cui le persone rimangono dove sono perché amano dove sono, e fanno lì quello che vogliono fare.

Che è un po’ una metafora dell’identità musicale dei Nobraino, in fondo.


Daniele Costantini

Sono nato nel cuore dell’entroterra abruzzese, a diciannove anni mi sono trasferito a L’Aquila, dove ho lasciato dei pezzi. Quel che restava l’ho spostato a Bologna, dove vivo e studio. Dedico la mia vita alla letteratura italiana e alla poesia. Mi piacciono le storie di pirati, i manga giapponesi e i supereroi. Soprattutto Spiderman.

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