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«ogni luce, ogni angolo, fanno un palco

di scene mute, di cose perdute»

Andrea Donaera parla sempre di provare a scrivere, piuttosto che di scrivere, quando si riferisce a sé stesso. «Nei romanzi che ho provato a scrivere», «in quello che provo a scrivere», dice, parlando delle sue opere. È una cosa che avevo notato già la prima volta che lo ascoltai dal vivo, a Bologna, durante la presentazione de Le estreme conseguenze. Non gliel’ho detto però, di aver notato questa cosa, né quella sera né quando ci siamo sentiti per quest’intervista. Non gliel’ho detto ma la trovo una cosa bella, io, questo parlare immaginando sempre il tentativo fatto, quello che sta alla base dell’opera e del prodotto finale. Che forse è proprio il tentativo, il provare a fare, a essere l’atto più autentico e onesto di tutti, specie nell’arte.

Ad ogni modo tutto ciò che Andrea Donaera ha provato finora a scrivere ha avuto un notevolissimo successo, di critica e lettori, e ha portato l’autore a diversi riconoscimenti importanti e a essere tradotto in Francia (con i romanzi Io sono la bestia e Lei che non tocca mai terra, pubblicati in Italia da NN Editore). A febbraio 2023 è uscita la sua sesta raccolta poetica: Le estreme conseguenze, edita da Le Lettere.

Quest’ultimo libro, «seduttivo e inquietante», come lo definisce Omar Di Monopoli nella sua prefazione al testo, porta in scena un processo di distruzione e autodistruzione: l’io poetico, che parla e più spesso pensa – portandosi il lettore dentro la testa, a farsi ascoltare i pensieri – si abbandona ad una lunga riflessione sulla propria condizione, che diventa nevrosi quando le paure della vita e sulla vita si fanno grandi e insistenti, totalizzanti. È così che tra memorie ricorrenti di madri stanche e incidenti, tra frammenti di attimi perduti e il presentimento di una malattia, la morte, nelle sue varie forme, si fa presenza incombente in ogni pagina. 

Sono queste, in fondo, le estreme conseguenze di cui parla il titolo? Lo chiedo direttamente ad Andrea.

Sì. Nonostante si tratti di un libro di poesie c’è un protagonista che svolge delle azioni, ci sono cose che gli accadono e cose che lui fa accadere, e il suo percorso all’interno della ”storia” del libro è proprio un portare a conseguenze estreme ciò che gli è accaduto in passato. Quindi le estreme conseguenze si verificano per lui riflettendo attorno a traumi, ricordi, e a tutti i comportamenti che certi traumi e ricordi generano; ed ecco che il protagonista abusa di cibo, abusa di alcool e abusa anche dei ricordi, portando tutto all’eccesso. All’estremo, appunto.

Si rende allora necessaria una scappatoia, una via di fuga, e il protagonista sembra cercarla nell’unico posto sempre accessibile e rassicurante: il ricordo. In particolare il ricordo dell’adolescenza, di quel tempo della scuola «nelle ore di stanchezza tra le espressioni e la / bellezza mai riavuta di quella campanella, / di quella ricreazione, la bidella, il caffè, / il bagno affumicato, la scritta sulla porta / della classe di lei: if you’ll fall i will catch». Ma questo continuo ricordare è il rimpianto di quel periodo della vita o è qualcosa di più?

La questione dell’adolescenza ho provato ad esprimerla in una maniera tossica: l’utilizzo dell’adolescenza è un tentativo che fa il protagonista di abbrancarsi a un momento della propria vita circoscritto, idealizzato, mistificato: non veritiero. Cioè lui dice: “le cose più belle della mia vita sono accadute in quel periodo”, ma naturalmente non è vero, non può essere vero per nessuno, è un meccanismo nel quale molte volte cadiamo tutti, credo. In realtà quella golden age che crediamo di rimpiangere finisce per diventare un rifugio in cui nascondersi per non affrontare il presente, e questo rischia di far danni, come nel caso del protagonista del libro.

C’è una specie di sotto-narrazione nel libro fatta dalle parentesi, e dall’uso frequente e articolato che ne fai. Un esempio:

{non li ricorderesti

non fossero stati pieni di senso:

[lo sai come sei, lo sai che disperdi

(sempre: senza poterci fare niente)

tutte le cose che non hanno senso

(come questo te adesso)] –

                   eppure: li perdesti:

                   eri (davvero) vuoto:

                   e ti credevi denso}

Personalmente, finita la prima lettura mi trovavo a tornare indietro, per ripartire seguendo l’andatura e il percorso che mi suggerivano le parentesi.

Sono contento tu l’abbia fatto perché l’intento era esattamente quello. Non so in quanti hanno avuto e avranno la stessa pazienza, visto che ricorda un po’ il risolvere un’equazione matematica e dunque può risultare noioso, ma l’idea – proprio come in un’equazione – era di  “sviluppare” il gorgo di pensieri in cui si trova il protagonista, e ricreare, attraverso le parentesi che si aprono e chiudono una dentro l’altra, il meccanismo del nostro pensiero, che alla fine quando si riflette intensamente attorno a qualcosa funziona così, no? Si parte da un pensiero principale e poi, senza controllo e senza nemmeno rendersi conto, si intraprendono altre strade, ma alla fine si torna sempre, in qualche modo, al blocco di partenza. 

C’è un altro poeta che utilizza molto la parentesi, che è Vincenzo Ostuni, anche se lui lo fa in maniera differente.

E la punteggiatura? Usi in modo ricorrente, quasi ossessivo, i due punti.

Quello è un richiamo a dei poeti che mi piacciono molto, come Edoardo Sanguineti e Elio Pagliarani, che da avanguardisti utilizzavano la punteggiatura in un modo che mi ha sempre affascinato. Ho imparato da loro a divertirmi con la punteggiatura.

Parli, ad un certo punto, del “piegarsi” al verso libero, che è il verso degli anni Zero. Pensi che la poesia contemporanea sia meno attenta, tecnicamente e metricamente? Questo uso così massiccio del verso libero che fanno le nuove generazioni di poeti pensi sia dovuto a una convenienza – e anche a una pigrizia – o semplicemente viene usato in quanto verso più adatto a raccontare questo momento storico e a dire quello che i poeti e le poetesse di oggi hanno da dire?

Non ho un’idea precisa su questo. A livello personale però mi sembra che le poesie più brutte che mi capita di leggere sono sempre in verso libero; le persone che pensano che scrivere poesia significhi andare a capo ad un certo punto (cioè a caso) usano sempre il verso libero. Al contempo però i più bravi sono quelli che sanno scrivere bene in verso libero. Quindi è un po’ un banco di prova grazie al quale si capisce chi è veramente bravo.

Anche sul processo di scrittura oggi c’è un gran dibattere, come forse da sempre. Nel tuo caso la scrittura si caratterizza di lampi estemporanei da appuntare, di momenti di ispirazione e getti di pancia – come in tanti intendono la propria poesia – o è un lavoro artigianale di riflessione, riscritture e modifiche?

Nella mia scrittura non c’è niente di pancia o di viscerale, è tutto molto ragionato. A questo libro ho dedicato più tempo di quello che ho dedicato ai romanzi che ho scritto.

All’interno della raccolta credo si possa rintracciare un’analisi sociologica. Torna spesso quella ”paura di arrivare alla meta” di cui parli prima in epigrafe citando Benjamin («Il labirinto è la patria dell’esitazione. La via di chi teme di arrivare alla meta traccerà, facilmente, un labirinto»), e che poi riprendi nel componimento I am the labyrinth. («[nel timore di un arrivare altrove / hai messo in piedi un vorticare a sbando – / ma perché? per chi? da quanto? da quando?]»).

Questa paura di arrivare alla meta mi sembra riconducibile alla condizione di una certa generazione, quella dei trentenni di oggi, e alla paura di affrontare la precarietà e la scarsità di risorse e opportunità che porta infine ad auto-sabotarsi, a perdere la direzione, a svoltare a caso e in preda all’ansia, a tornare indietro e infine ad avere la sensazione di trovarsi dentro un labirinto da cui sembra impossibile uscire.

Questa è una lettura che appartiene allo strato più profondo del libro. Questo afflato generazionale per me c’è, ed è in tutte le cose che provo a scrivere. Non perché voglia essere colui che racconta una generazione, ma perché è istintivo, come è istintivo parlare del mondo circostante, che si riversa in ciò che scriviamo e nei protagonisti che creiamo. Accolgo con piacere questa lettura perché probabilmente c’era esattamente questo nel mio sguardo e in quel labirinto.

Aspettiamo domani,

quindi: si farà sera,

accenderai un incenso –

per dare senso al niente,

sarà uguale a ora che:

lasci la luce accesa,

in una tosse strana:

«Resisti, Donaera».

Scopri gli altri contenuti nel mese dedicato a #Gioco

Illustrazione di Krizia Di Edoardo.

One Comment

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