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Raccontare l’impossibilità di realizzare sogni di libertà e normalità ed esserne testimoni.
Un’esperienza di volontariato a Gaziantep, nel Sud della Turchia, raccontata da chi ha ascoltato le parole dei giovani siriani e i loro problemi d’integrazione all’interno della società turca.
Persone invisibili, confinate e ghettizzate, vite bloccate al margine in un limbo da cui non possono né tornare indietro né andare avanti.

La mente ospita così tanti sogni che ognuno di noi è il testimone diretto dei propri.
Entrare nella mente delle persone che hanno vissuto un fardello come la guerra, non è facile né tantomeno scontato.
I sogni sono, in gran parte, ciò che guida e fortifica chi è in estrema difficoltà. I migranti, ad esempio. La forza per continuare a sopravvivere, ci si chiede, dovrà pur provenire da qualche parte..
quell’elemento che permette loro di alzarsi ogni mattina e arrivare a fine giornata.


Il mio viaggio inizia nel dicembre 2021 dall’Italia e si conclude a Gaziantep, dove mi chiedo se i due mesi di permanenza previsti siano sufficienti a cogliere la complessità e la diversità di questo territorio e degli abitanti stessi.
Gaziantep, meglio conosciuta come Antep, è una città collocata nel Sud-Est della Turchia, la più grande della regione dell’Anatolia sud-orientale e la sesta della nazione. A sentire la gente locale, si prospetta una delle città più conservatrici del Paese. Con una popolazione di circa 1.773.000 abitanti e un’università che sembra una piccola città-stato, dove studiano moltissimi ragazzi e ragazze provenienti da diverse parti del mondo, sorprende e rammarica di come essa si presenti, al contempo, così razzista nei confronti dei rifugiati siriani.

Con lo scoppio del conflitto civile, la Turchia è stata la prima meta di destinazione per milioni di siriani in fuga dalla guerra e, ad oggi, è il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo, quasi 4 milioni dei quali più di 3,6 milioni sono siriani. L’incremento del 20% subito dalla popolazione a seguito delle enormi ondate di profughi viene strumentalizzato da una gran parte della politica turca, che finisce di conseguenza per influenzare l’intera popolazione.

I ragazzi e le ragazze siriane sono invisibili, confinati e ghettizzati.
Vivono in un limbo: bloccati a metà, non possono né tornare indietro né andare avanti. Il loro essere siriani e la loro presenza sul territorio rappresenta un forte pericolo, per loro stessi e per chi li circonda. 

Parlando con alcuni di loro, mi si è fatto notare come i capelli tendenzialmente più lunghi e i tratti diversi da un classico ragazzo turco possano rappresentare un oggetto di mira da parte della popolazione locale, soprattutto quando il sole cala. Ho sentito racconti di persone che sono state picchiate, aggredite e insultate per essere quel che sono: siriani.

Alcuni provano rabbia nei confronti della gente locale o per i turchi in generale, molti altri invece incolpano Bashar al-Assad. Da quando è iniziata la crisi in Siria, il 15 marzo 2011, sono molti coloro che si sono stabiliti definitivamente in Turchia. Alcuni possiedono piccole attività, come un negozio di alimentari o piccoli ristoranti siriani dove al contempo si può gustare il famoso Çay, il tè turco per eccellenza. Molti altri invece sono impiegati nelle industrie agricole, tessili, alimentari o del cemento. Tuttavia, in mancanza di un permesso di soggiorno turco, sono tanti coloro che sono costretti a lavorare senza un contratto regolare e, dunque, più facilmente sfruttabili.

In Occidente, a causa di una visione spesso stereotipata, tutto quello che la maggior parte delle persone conosce di quest’area del Medio Oriente è guerra, terrorismo e una religione male interpretata, ovvero l’Islam.
Si dimentica invece che è proprio qui che è iniziata la civiltà;  l’Umanità è nata in Africa, la civiltà invece ha avuto inizio nella Mesopotamia.

La mia esperienza come volontaria del progetto del Corpo Europeo di Solidarietà (CES), nell’associazione no-profit Gaziantep Eğitim ve Gençlik Derneği (GEGED), mi ha permesso di partecipare attivamente alle campagne per la consapevolezza europea, alla cittadinanza attiva e alla democrazia, ai laboratori di sensibilizzazione ambientale e all’educazione non-formale di bambini, giovani e adulti con meno opportunità. Fondata nel 2007 da un gruppo di giovani attivisti, da allora oltre 2000 giovani hanno aderito ai progetti di mobilità dell’organizzazione, che ha ospitato numerosi progetti Erasmus+, come il volontariato e gli scambi di giovani. Le attività più popolari di GEGED sono: migliorare il benessere e l’educazione dei migranti siriani, la lotta per l’accesso all’educazione, l’empowerment femminile e la promozione dei valori e della cultura europei. Di fatto, Gaziantep è uno dei punti di ingresso per i siriani e più di 350.000 rifugiati cercano un tetto; il 16,80% della popolazione è attualmente siriana. L’organizzazione è molto attiva nelle campagne di solidarietà per l’integrazione dei migranti e fornisce opportunità di apprendimento per i bambini, i giovani e gli adulti migranti.

Considerata la grave crisi economica che attanaglia la Turchia, tra una svalutazione crescente della lira e un’inflazione sempre più incontrollabile, è allarmante il numero degli omicidi di richiedenti asilo siriani. Eppure i rifugiati siriani, come i tanti altri richiedenti asilo, vivono un’esistenza ai margini. La maggior parte di loro sono giovanissimi, un milione sotto i dieci anni, altri due milioni sotto i trenta. La stragrande maggioranza, secondo i dati dell’UNHCR, non ha accesso alla casa, all’educazione, al sostegno finanziario del governo. La metà dei bambini rifugiati non frequenta la scuola e il 70% vive in povertà. Moltissime organizzazioni per i diritti umani accusano il governo di perseguire una strategia propagandistica al fine di spingere la popolazione turca contro i rifugiati, distogliendo l’attenzione dalla crisi economica e dalle sue reali cause.  

Il razzismo sistemico,poi, si manifesta nel razzismo istituzionale, che si riferisce al pregiudizio razziale attuato nelle politiche o nelle pratiche legislative. Alyasah A. Sewell, professoressa e sociologa, lo definisce come un blocco delle minoranze dall’accesso ai beni, ai servizi e alle opportunità della società; ne è un vero esempio quello che accade a chi porta l’onere di essere nato in Siria ma si ritrova a mendicare un po’ di umanità altrove. 

La Turchia, per quanto la sua cultura possa avermi affascinata e l’accoglienza della gente deliziata, sul piano politico e sociale incarna gli stessi problemi che hanno tantissimi Paesi in via di sviluppo e, al contempo, riguardano anche la nostra Europa: la prassi continua del razzismo sistemico. 

La Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo Status di rifugiato e il protocollo del 1964 stabiliscono obblighi di non-refoulement (art. 33 Conv. 1951). Ciò vale a dire l’obbligo che hanno tutti gli Stati firmatari della Convenzione di non respingere il richiedente asilo verso le frontiere di uno Stato ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. L’Art. 31 Conv. 1951, inoltre, obbliga gli Stati a non assoggettare a sanzioni penali i rifugiati che entrino illegalmente nel territorio dello Stato cui intendono chiedere asilo.

La politica della porta aperta, adottata dal governo turco dopo il 2012 fino alla chiusura della frontiera con la Siria nel 2015, mostra dunque chiaramente l’incapacità di Ankara di far fronte a una delle più grandi crisi umanitarie che si sta consumando da più di dieci anni al proprio confine. Se l’1,7% dei rifugiati vive nei centri di accoglienza temporanea, la quasi totalità, circa il 98% di siriani sono beneficiari di protezione temporanea. In più, moltissime municipalità turche come Kilis, Hatay, Gaziantep e Şanlıurfa, data la loro vicinanza con il confine siriano, hanno difficoltà nell’erogare i servizi essenziali.

I numerosi attori coinvolti in Siria, le profonde divergenze di vedute sulla questione dei migranti e le diffidenze reciproche tra la Turchia e l’Unione Europea finiscono solo per danneggiare i sopravvissuti. Un esempio chiaro è dato dall’impossibilità che incontrano tantissimi siriani e siriane nel lasciare la prima città di arrivo. Essendo beneficiari di una protezione temporanea, diversamente dallo status di rifugiato, hanno bisogno di ottenere un permesso dal governo turco per poter spostarsi o viaggiare all’interno del Paese. 
Burocrazia, propaganda, guerra, razzismo.
Tutti elementi che bloccano i sogni, i viaggi e le avventure che i migranti, giovani ma anche adulti, vorrebbero vivere al pari dei loro coetanei in altre parti del mondo. Sogni di normalità che diventa eccezione, così naturali da immaginare per noi ma così impossibili da vivere per loro, ostacolati da una politica d’integrazione che li respinge e li rifiuta. Per non sommare il problema del lavoro minorile e la differenza linguistica che non permettono di integrarsi facilmente nella società turca, rendendo così fondamentale l’aumento degli sforzi finora compiuti sia a livello nazionale che internazionale.
Bisogna monitorare e capire a fondo sempre di più ciò che accade, e non solo, alle porte dell’Europa. Perché sì, ci riguarda più di quanto non pensiamo.


Illustrazione di copertina a cura di Andrea Pichierri

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