Come nasce un’opera scultorea? Qual è il processo creativo che porta a plasmare un corpo dalla materia?
La curiosità ha spinto Palin a chiederlo a Rabarama, alias Paola Epifani, scultrice romana e artista molto conosciuta a livello italiano e internazionale.
La peculiarità del suo lavoro risiede nel creare sculture con figure androgine, uomini, donne o creature ibride, tutti soggetti dal corpo decorato con simboli, lettere, geroglifici e altri segni. Artista dal talento poliedrico, nel tempo Rabarama ha saputo sperimentare vari materiali e si è cimentata in diversi tipi di opere: da quelle in terracotta ai suoi più famosi bronzi dipinti, sculture in marmo, vetro, pietre rare e resina, fino ad arrivare a serigrafie e dipinti.
Rabarama ha preso parte a concorsi di scultura in Italia e all’estero, con opere che hanno sin da subito riscosso un successo di pubblico e della critica. Numerose infatti le sue opere acquisite da importanti istituzioni museali pubbliche e private, come lo Sculpture Space di Shanghai e il Copelouzos Museum di Atene, senza dimenticare le tre figure monumentali acquistate dal Comune di Reggio Calabria ed esposte sul Lungomare Falcomatà, il ‘chilometro più bello d’Italia’, e altre opere sparse in alcuni borghi italiani.
Oltre che in Europa, le opere dell’artista romana sono state esposte e apprezzate nelle grandi capitali mondiali dell’arte contemporanea.
Oggi Rabarama vive e lavora a Padova e porta avanti la sua carriera artistica dal respiro internazionale collaborando con importanti gallerie d’arte in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti.
L’intervista è a cura di Giorgia Ciolli.

Può raccontare il processo che la conduce alla realizzazione di una sua opera scultorea?
La mia ricerca artistica si è sviluppata attorno a una domanda che penso ognuno di noi si sia posto almeno una volta: perché siamo al mondo? Qual è il senso della nostra esistenza? Da quel momento la mia stessa vita è quindi diventata un filtro preferenziale per poter approfondire questa tematica. Sono inizialmente partita da uno studio scientifico biologico, con focus sulla genetica, per spaziare poi tra varie materie, tra le quali antropologia, linguistica, filosofia, simbologia, fino ad arrivare ad abbracciare una visione più spirituale della vita. A questo proposito, hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale i viaggi che mi hanno messo in contatto con la cultura orientale. Quello che più ha colpito e affascinato è la visione ciclica che spesso queste filosofie hanno della vita, la convinzione che la nostra esistenza non sia una semplice linea retta, con un inizio e una fine, come ci hanno educato a credere, ma una continua evoluzione e trasformazione che spinge l’uomo ad essere migliore. Ogni evento, ogni emozione, ogni pensiero, ma anche le piccole suggestioni quotidiane, diventano per me uno spunto da imprimere nella materia. E nel cercare di comprendere me stessa ho sempre cercato di allargare le mie interpretazioni, trovando un modo per trasmetterle in una chiave che vuole abbracciare l’universo, utilizzando quindi simboli e segni che siano comprensibili ai più. La condivisione del nostro sentire rimane per me uno dei valori più alti al quale puntare.
Come nasce l’interesse così accentuato verso la rappresentazione del corpo? In alcune delle sue opere, inoltre, mi sembra che il maschile e il femminile si fondano in un’unica entità. Qual è la poetica che la guida nella rappresentazione di tali iconografie?
Ogni emozione, positiva o negativa che sia, ha una connotazione fortemente carnale e l’essere umano filtra queste suggestioni direttamente attraverso la sua pelle. Il corpo è quindi diventato per me una sorta di tela sulla quale disegnare ma soprattutto incidere un messaggio. Inizialmente ho prediletto le figure androgine perché riassumevano con armonia sia il corpo maschile che quello femminile, e solo successivamente ho preferito caratterizzarle. In quanto donna spesso prediligo, forse anche a livello inconscio, la figura femminile poiché utilizzo le mie esperienze come filtro e punto di partenza sulle quali ragionare. Concludendo, la mia ricerca non ha mai voluto limitarsi ai concetti stereotipati di maschile e femminile perché ho sempre cercato di abbracciare l’essere umano nel senso più puro e spirituale possibile.

Nelle sculture i corpi di uomini e donne presentano una vasta geografia di segni e simboli, quale significato celano?
Esistono infinite pagine che studiano e approfondiscono le sfumature che ogni simbolo può tradurre e non credo che ne esistano molti che possano essere decodificati allo stesso modo da tutte le culture. Per me i segni sono diventati a tutti gli effetti un mezzo di espressione attraverso i quali cercare di riassumere, ma soprattutto visualizzare, i concetti della mia ricerca. Ho spesso trovato difficile esprimermi con le parole e ho quindi iniziato a trasformarle in immagini e simboli che potessero in qualche modo avere un impatto più universale.
Tra i diversi simboli si trovano a volte dei chiari riferimenti ai geroglifici.
Che significato riveste per lei la cultura egizia?
Sono sempre stata attratta dalle costruzioni piramidali mastodontiche, dalla loro simbologia ma soprattutto dalla loro aura. Quei luoghi emanano spesso una forza ancestrale, ispirano una grandissima sinergia tra uomo, creato e divinità. Sono stata fortunata e fin da giovanissima ho avuto l’opportunità di esplorare l’America Latina, soprattutto il Messico, dove ho scoperto diversi luoghi sacri impregnati di questa energia. Ad oggi non sono mai riuscita a visitare l’Egitto e forse proprio perché non l’ho mai sperimentato in prima persona mi sono immersa nella sua storia e nella sua cultura, fino a focalizzarlo all’interno delle mie creature. Non so spiegarlo, ma tutti questi luoghi primordiali, nonostante i millenni di storia che custodiscono, mi hanno sempre fatto pensare al futuro: chi saremmo tra altrettanti anni? O forse chi eravamo prima di vivere in questa Terra?
L’utilizzo della tecnica della fusione a cera persa, la predominanza del bronzo e di segni provenienti da culture lontane sono tutti elementi molto preponderanti nelle sue opere, un chiaro rimando all’antichità. A cos’è dovuta tale scelta?
È vero, le tecniche artistiche che utilizzo provengono direttamente dal passato. Mi hanno sempre affascinato e, se devo essere onesta, mi affascinano ancor di più delle tecniche più contemporanee. Il passato si lega in modo inscindibile al dna dell’essere umano: siamo chi siamo per quello che siamo stati e continuiamo ad evolverci proprio a partire da questa premessa. Scegliere di seguire questi insegnamenti per generare le mie creature è un modo per onorare la tradizione, quella che a tutti gli effetti è per me un dono che ci è stato affidato per essere custodito e tramandato alle generazioni future. La mia non vuole essere una visione nostalgica ma solo un atto di consapevolezza delle nostre radici, non un punto di arrivo ma un punto di partenza per evolvere. Ciò non toglie che nel corso della mia carriera abbia sperimentato sia materiali di ultima generazione, come resine e polimeri plastici, e abbia anche collaborato a un progetto di mappatura digitale che vedeva la pelle di una mia creatura trasformarsi in modo camaleontico.

La sua arte vede il corpo centrale in ogni sua forma, è reso protagonista e viene intrecciato con altre discipline come la body art o l’arte circense. In particolare, come è nata la sinergia con l’arte circense e come questi due mondi si sono nutriti a vicenda?
Per quanto abbia sempre trattato la scultura come materia viva, le mie creature fermano a tutti gli effetti nella forma un’istante, un concetto, un’emozione. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stato vederle muoversi e interagire con il pubblico, un desiderio nato in modo piuttosto spontaneo. Nella mia mente lo potevo vedere chiaramente: era come aprire un carillon e far prendere vita a un mondo fatto di corpi, suoni e colori. A posteriori è quasi ironico non averci pensato subito, ma l’arte circense si fonda esattamente su questo, sulla danza, sulla musica, sull’armonia. Quando Guy Laliberté, uno dei fondatori del Cirque du Soleil, si è imbattuto per la prima volta nelle mie sculture ha riconosciuto il suo universo. E io, nello scoprire i loro spettacoli, ho visto la mia immaginazione diventare finalmente realtà. Direi un incontro fortunato che ha dato vita a una sinergia perfetta. Ho avuto l’onore di collaborare con lui nella creazione di un “tempo teatrale” di uno dei suoi spettacoli nel quale gli artisti del Cirque hanno dato vita ad alcune delle mie creature.

Nelle sue opere passato, presente e futuro si fondono insieme, l’essere umano viene messo letteralmente a nudo ma allo stesso tempo il corpo è celato da una sorta di corazza che si frappone come un velo di Maya tra la realtà corporea dell’essere umano e la sua anima.
Qual è in questo senso il messaggio che intende mandare?
Credo che una delle cose più difficili in questa vita sia arrivare a conoscersi a fondo, accettarsi, amarsi e a volte anche perdonarsi. Ho sempre pensato che l’essere umano sia solito indossare un’armatura, una corazza forgiata per difendere la propria essenza, la propria luce interiore, dal mondo esterno. Io per prima ho vissuto e vivo questo disagio, e in passato ho cercato di proteggermi facendo leva su questo istinto di autopreservazione. La verità è che il regalo più grande che possiamo farci è proprio abbattere quei muri per scoprirci e quindi farci scoprire. La consapevolezza è l’unica arma in grado di farci superare la paura e farci vivere in piena sinergia con noi stessi e l’universo che ci circonda.
È difficile trovare scultrici donne affermate nel mondo dell’arte come Lei.
Da dove viene dunque la scelta di essere conosciuta con un nome d’arte e quale è il suo significato?
Mio padre era un artista affermato, un pittore, e il cognome Epifani era quindi ben noto all’interno del circuito artistico. È stato il mio primo sostenitore e quando ha iniziato a presentarmi ai suoi galleristi ho sentito l’esigenza di staccarmi e crearmi una mia propria identità. Ho sempre amato giocare con le parole, i titoli delle mie creature ne sono un esempio lampante, e quindi anche il mio nome è nato come un gioco. In sanscrito, raba significa ‘simbolo’ o ‘segno’ e rama si lega alla divinità: una sintesi perfetta di quella che è sempre stata la mia ricerca personale e artistica.

Credits materiale fotografico:
Ritratto fotografico: Rabarama con scultura Im-plosione, Mostra Synantisi, Parco di Villa Mussolini, Riccione, ph. Annamaria Bortolozzo
Love, marmo intermedio, 2022, cm H 190 x 160 x 80
Trans-porto, allumino dipinto, 2006, cm H 118 x 70 x 105
Shiva, bronzo dipinto, 2017, cm H 40 x 30 x 41
Chimera, bronzo dipinto, 2020, cm H 51 x 39 x 34
Liber, bronzo lucido con inserti pittorici in smalto, 2021, cm H 23 x 16 x 13