Il primo giorno in cui Kiev iniziava a essere bombardata, lo scorso 24 febbraio, lui era lì chiuso in un bunker insieme ad altri colleghi e civili.
Ma prima ancora è stato il turno della Striscia di Gaza, poi la rotta balcanica, quindi i salvataggi a bordo delle navi Ong nel Mediterraneo e altri contesti di crisi.
Queste sono solo alcune delle situazioni di crisi umanitaria vissute e raccontate negli anni da Valerio Nicolosi, giornalista e fotografo romano.
Quella di Valerio Nicolosi è una lunga carriera che vanta collaborazioni con agenzie di stampa internazionali e diversi quotidiani, riconoscimenti del settore e incontri in università in Palestina e in Italia. Oltre a podcast, reportage e inchieste per la rivista ‘MicroMega’, Nicolosi è autore e direttore di documentari su tematiche a sfondo sociale come Ants, sulle rotte migratorie verso l’Europa.
Dopo la pubblicazione di (R)esistenze edito da Crowdbooks nel 2018, Nicolosi torna quest’anno nelle librerie con Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie, scritto insieme a Caterina Bonvicini e pubblicato da Einaudi, in cui è autore di un saggio e delle fotografie contenute all’interno.
Salvatore Bruno lo ha intervistato a Bologna, subito dopo la presentazione del libro.

Partiamo da ‘Mediterraneo’, il libro scritto a quattro mani con Caterina Bonvicini, nel quale compaiono un tuo saggio e una galleria di fotografie che hai scattato a bordo delle navi umanitarie.
Qual è la sensazione principale che alberga in chi scrive e documenta per parole e per immagini situazioni del genere?
Per me il sentimento principale è quello della responsabilità, poi subito dopo quello del privilegio. Responsabilità perché ce l’hai se sei di fronte a una crisi umanitaria, una catastrofe, un distress, tecnicamente quindi un pericolo imminente. Sei un essere umano prima di tutto e poi sei una persona che racconta, per lavoro e soprattutto per passione.
Questo ovviamente mette davanti a una rigorosità nella scelta di quello che racconti. Ovviamente sei messo nelle condizioni di dire ‘Devo essere rigoroso e responsabile’ perché, appunto, è una grande catastrofe e solo in pochi possono vederla e quindi raccontarla.
E qui entra in gioco anche la seconda fase che è quella del privilegio; il privilegio di poter partecipare a un soccorso e di poter raccontare la Storia, e Storia è lì davanti a te.
Poi, il soccorso in mare penso sia stato il grande tema dal 2010 al 2020, il decennio prima del Covid, per cui esiste questa componente di privilegio che abbiamo avuto e che sta nell’essere parte integrante in questa storia.
Da diversi anni ormai ti occupi di varie tematiche sociali, di rotte migratorie come quella balcanica, oltre che di Palestina e della Striscia di Gaza, dove hai anche vissuto e lavorato. Inoltre, eri presente a Kiev lo scorso febbraio durante i primi giorni di guerra in Ucraina.
Qual è secondo te la caratteristica che lega tutte le situazioni di crisi che hai vissuto e cosa invece le differenzia? Esistono migranti di serie A e altri di serie B?
Quello che le caratterizza sono gli esseri umani, che io cerco sempre di mettere al centro. Sono contesti molto diversi per storia, per cultura, per situazioni politiche attuali e passate e soprattutto per prospettive future; quindi non trovo un filo comune se non il fatto che siano gli esseri umani a fare le spese in queste situazioni e soprattutto che subiscono le scelte dei governi, le scelte di una guerra o di una pace. E non riescono a essere parte attiva della storia.
Riguardo ai migranti, credo ci siano piuttosto un’accoglienza di serie A e una di serie B. Perché sì, esiste il razzismo di stato che chiude le frontiere a chi arriva da Siria, Afghanistan o Iraq, da guerre alle quali abbiamo partecipato o che abbiamo aiutato a scatenare, e al tempo stesso però abbiamo aperto le porte in questa guerra in atto, dimostrando che non c’è mai stata un’emergenza nell’accoglienza degli anni passati.
Adesso si parla di cifre in un piccolissimo tempo molto più grandi e non abbiamo avuto problemi, mentre negli anni passati erano cifre più alte e in tempi più diluiti e abbiamo parlato di accoglienza.
Nei contesti di emergenza umanitaria, in mare come a terra, qual è stata l’esperienza che più di tutte ti ha fatto capire di essere nel posto giusto e al momento giusto? Ce n’è stata qualcuna che ha cambiato radicalmente il tuo punto di vista?
Io non credo di essere mai nel posto giusto e al momento giusto, credo solamente nella possibilità di raccontare. Forse giornalisticamente lo sono stato: penso a Kiev, in mare o nei Balcani, quando ero ‘esperto’ perché mi occupavo di rotta balcanica da tempo e poi all’improvviso è diventata molto raccontata e molto seguita.
Più che di essere al posto giusto nel momento giusto, si tratta semplicemente di avere la possibilità di raccontare le storie o meno. Perché poi, nel giornalismo c’è un problema che è la ‘notiziabilità’, ossia uno stesso tema che da un anno all’altro può cambiare la diffusione, perché è diventato notiziabile oppure non lo è più. Sta qui la differenza.
Da giornalista, regista e fotoreporter che utilizza e lavora con vari linguaggi e strumenti multimediali, dai podcast ai social media, quale pensi sia la difficoltà più grande nel trasmettere una notizia? C’è un mezzo che riesce e arriva meglio di altri o dipende dalla notizia?
Ogni storia può essere raccontata con diversi mezzi; magari rende di più in foto o con l’audio, dipende poi anche dal nostro occhio, dalla nostra voce, dal nostro approccio come da tante cose. Piuttosto che difficoltà più grande, metterei il focus su un altro aspetto che è quello dell’essere semplici, di avere un linguaggio diretto a prescindere dallo strumento. Di arrivare, di cercare di far capire a più persone possibili quello che sta accadendo: ecco, questa è la cosa più importante.
Cosa significa per te fare giornalismo?
Raccontare storie e farlo dalla parte delle persone, tutto qui.
Nel tuo lavoro, cos’è cambiato e cos’è rimasto uguale da prima a oggi?
Soprattutto, oggi si incontrano le stesse difficoltà di sempre o qualcosa è cambiato?
Sul campo più o meno le dinamiche sono sempre quelle, non è cambiato nulla nell’approccio. Per me sul campo bisogna avere in primis determinate accortezze. Il rispetto per le persone e la messa in sicurezza di sé stessi sono i due aspetti principali e sono sempre gli stessi, ma credo da sempre, a prescindere dagli strumenti che cambiano.
La foto di copertina è di Alessandra Fuccillo
Si ringrazia Valerio Nicolosi per la gentile concessione delle sue fotografie scattate a bordo delle navi umanitarie