Nella corsa all’oro che è diventata la ricerca sulla robotica e l’intelligenza artificiale, un gran numero di indizi portano a pensare che la vera miniera d’oro non sia nei transistor o in nuovi algoritmi innovativi ma nel nostro corpo. Dalle sinapsi all’epidermide, è grazie alla sinergia di tutte le parti del nostro corpo che l’intelligenza e la coscienza umana possono svilupparsi. E proprio questo potrebbe essere il pezzo mancante della robotica moderna.
Alzi la mano chi non ha commentato, almeno una volta, gli inquietanti video dei robot della Boston Dymanics™ che saltano qua e là magari chiedendosi quanto una storia alla Io, Robot sarà considerata fantascienza tra una decina d’anni. Non solo: alzi la mano anche chi non si è sentito, almeno un po’, sopraffatto ogni volta che sente parlare di intelligenze artificiali che in poche ore imparano a giocare a scacchi e diventano imbattibili. Se le vostre mani non si sono alzate, spero che per la fine di questo articolo vi abbia tirato su il morale e, magari, fatti sentire un po’ più speciali.
Il rischio di sentirsi superati dai robot e dalle intelligenze artificiali è, a dire il vero, fondato. Non avremo mai la capacità computazionale di un computer, né la capacità di apprendimento di un’ A.I. (Artificial Intelligence) o tantomeno il senso del ritmo di certi robot. In più, leggendo le dichiarazioni di certi guru tecnologici come Elon Musk, parrebbe che l’intelligenza generale artificiale (AGI), ovvero un’intelligenza artificiale simile a quella umana possa essere prodotta nel giro di poco tempo. Musk non è nuovo a dichiarazioni del genere, di solito usate come strumento di marketing e per creare una sorta di culto della personalitá tech, ma la verità pare contraddirlo, come ha fatto notare il responsabile A.I. di Facebook in un tweet.
Per la cronaca, la risposta di Musk è stata, testualmente: «Facebook sucks».
Ma perchè tutta questa voglia di creare un’intelligenza piú umana?
Se è vero che i robot sono meglio di noi in potenza di calcolo, apprendimento e molto altro (tra cui ritmo, vedi sopra), che bisogno c’è di impegnare cosí tanti sforzi nel riprodurre un’intelligenza come la nostra? Se abbiamo bisogno di intelligenza umana, basterebbe prendere un umano e usarlo, ci sono circa 7 miliardi di esemplari già prodotti e sparsi piú o meno dappertutto.
A parte il puro interesse scientifico, lo studio del cervello umano, la sua intelligenza e tutto ciò che ne consegue sono stati oggetto di intensi studi interdisciplinari tra neuroscienze, matematica, biologia, informatica, fisica quantistica e altre, anche per le immediate applicazioni nel campo della robotica e intelligenza artificiale. La ragione è che, in termini molto volgari, l’essere umano potrà anche perdere a scacchi contro un computer o correre meno veloce, ma l’insieme delle sue abilità è di gran lunga maggiore della più avanzata intelligenza artificiale. Per questo, il nuovo passo sarà quello di creare un’intelligenza generale artificiale: un’intelligenza capace di migliorarsi e di ragionare in tutti i possibili contesti che le si presenteranno davanti.

La prova del nove sulla fallacia delle intelligenze artificiali è provare a farle domande mal poste, delle domande trabocchetto insomma. Se, ad esempio, una A.I. risponde perfettamente alla domanda «Quanti occhi ha una giraffa?» (due, per chi se lo stesse chiedendo), non necessariamente la stessa A.I. risponderá altrettanto bene alla domanda «Quanti occhi ha il mio piede?». Le intelligenze artificiali infatti comunicano scegliendo le interazioni adatte (cioè, quelle che statisticamente hanno dato risultati migliori) dal database a loro disposizione: di solito, internet. Ma se questo processo porta ad una capacità comunicativa a tratti sorprendente, esso non basta a rendere la A.I. un cervello ‘ragionante’.
Estremizzando un po’, si potrebbe dire che le intelligenze artificiali siano pappagalli dell’internet e non macchine realmente pensanti. E se non pensano, non sono.
Se infatti crediamo a Cartesio e alla consapevolezza di sé derivata puramente dal proprio pensiero, le A.I. non hanno ancora acquisito coscienza di sé come i robot di Asimov. Buone notizie quindi: la guerra contro i robot sembra scongiurata per adesso, nonostante qualcuno pensi il contrario. *
Ma come dare ad una macchina coscienza di sé? Difficile dirlo, soprattutto perché al giorno d’oggi la coscienza (nostra, figuriamoci quella robotica) rimane uno dei più grandi misteri della Scienza attuale. La coscienza è un concetto vago e astratto ma assolutamente fondamentale: è ciò che ci rende coscienti di cosa sia un colore, un suono, l’odore del caffè o, ancora più in fondo, essere consapevoli di noi stessi. Ci permette di comunicare, di capire gli altri e noi stessi, di immagazzinare informazioni dall’esterno e riformularle in modo personale.
Il problema è che nessuno sa da dove venga.
Non è ben chiaro, infatti, in che momento e a causa di cosa le informazioni, come ad esempio le molecole rilasciate dal caffè al mattino nell’aria e respirate dal naso, vengano trasformate dal cervello nel profumo che ci fa alzare dal letto. Ancora peggio: non è chiara la strada per venire a capo di questo problema.
È chiaro però che la risposta ricada o nella mente – astratta e immanente – o nel nostro corpo, compreso cervello e sistema nervoso in quanto oggetti fisici. La linea di demarcazione è probabilmente molto sottile, ma è abbastanza per creare un dualismo tra le due ancora non risolto: il problema mente-corpo.
Non si hanno ancora risposte certe, sebbene sia opinione comune tra gli esperti che per creare un cervello realmente pensante, ossia cosciente, non basti incasellare sempre più transistor e potenza di calcolo in cervelli digitali e immanenti, ma che serva un corpo, un cervello di carne e di sinapsi, un sistema nervoso, dei muscoli eccetera per farcela.
Apparentemente, è la vittoria del corpo sulla mente.
Nota a piè di pagina: è opinione di chi scrive che certe dichiarazioni provenienti da una nota compagnia di A.I. siano rilasciate esclusivamente per l’hype.