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Ekphrasis, ovvero l’arte di descrivere verbalmente un’opera visiva. Qui tenta di svolgere l’intricata matassa dell’immagine, traducendo in parole la molteplice, semantica del visuale. Prima ancora di allungare lo sguardo, Ekphrasis vorrebbe provare ad allargarlo.

Scuola dei Paesi Basse meridionali, Paesaggio antropomorfo. Ritratto d’uomo, Seconda metà del XVI secolo, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles / photo : J. Geleyns – Art Photography

A vederlo da qui sembra tutto un altro paesaggio, come quando incontri dopo troppo tempo un vecchio amico d’infanzia, e non riesci dapprima a riconoscerne il volto, ad associarlo a un ricordo tangibile, al profumo di un’estate fugace d’annusare di nuovo.

Poi, tramite qualche strana analogia di cui ignoriamo la ragione, ecco innescata l’esplosione silente della memoria, che si propaga di colpo come una pianta rampicante, su per i rami infestati del tuo passato sconnesso.

Basta allontanarsi di qualche centinaio di metri, srotolando la matassa delle scie luminose del nostro immaginario metropolitano, salire appena un po’ più su, dove trovare un punto di vista alternativo e distaccato, ulteriore, e tutto cambia all’improvviso, ancora una volta.

O forse ci appare semplicemente per quello che è sempre stato, e non può non essere, ovvero l’eterno ritorno alla nostra fonte vitale, ansimante, al liquido amniotico della nostra esistenza.

Quelle strade che abbiamo solcato per anni, quei campi che abbiamo mietuto sotto il sole di un luglio arancione, quei boschi che abbiamo penetrato correndo e annusando la promessa di una pioggia imminente: ebbene, tutto faceva parte di un unico immenso disegno, e adesso – come direbbe Benjamin – è arrivata forse l’ora della sua leggibilità.

E non possiamo più girarci dall’altra parte. Non possiamo più fare finta di niente.

Il corpo è anch’esso un ecosistema, ecco la rivelazione, sebbene faccia parte di un ecosistema molto più grande dei nostri orticelli recintati.

Sta a noi riconoscerne i limiti parlanti, preservarne la sostenibilità senza lasciarne marcire i frutti, così da poterlo abitare fino in fondo, dalla barba alberata all’orecchio della valle.

Tutte quelle attività febbrili, che come formiche abbiamo reiterato senza sapere esattamente perché, hanno finito per confondere i nostri sensi distratti, atrofizzati da un respiro drogato e artificiale.

Riconoscerne il ritmo, riacquistarne il passo, sarà la vocazione prosodica della nostra generazione, chiamata attraverso i limiti dei propri nudi, corpi umani, a fare pace con le cicliche stagioni della natura, che una miope ipertrofia aveva cercato invano di negare.

Un mondo in cui poter ritornare a respirare sino al colmo, un clima terso come le esigenze fisiologiche di un bambino che gattona, saranno questi gli ingredienti di una nuova poesia universale, in cui cantare la vita non può significare altro che mettersi in cammino, ancora una volta, seguendo la metrica dei nostri corpi.

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