Le riflessioni dello psicologo del profondo, James Hillman, insieme alla bizantinista Silvia Ronchey, aprono una prospettiva sull’ ‛immagine vera’, ‛intima’ e sull’immaginazione. Le immagini che ‛tacciono’ hanno il potere di trasformare l’uomo. La verità dell’immagine risiede nel suo silenzio.
In principio è l’immagine. Prima viene l’immagine e poi la percezione. Prima la fantasia e poi la realtà.
Noi esseri bulimici di immagini, cosa ce ne facciamo una volta che le abbiamo inghiottite? Esistono immagini nutrienti? Sì, tanto quanto esistono immagini velenose al nostro organismo. Si riconoscono subito quelle nocive dal momento in cui ci impediscono di immaginare. Mentre le immagini che ci nutrono sono quelle che ci fanno vedere oltre la figura che emerge dallo sfondo. Sono in grado di aprire un orizzonte immaginifico dove la fantasia e l’intuizione sono libere di fluire e di creare connessioni. Ci danno libertà le immagini ‛vere’, perché sono dei portali. Lo psicologo del profondo James Hillman, nel suo libro postumo, L’ultima immagine, le definisce così:
Abbiamo centinaia di tessere, nessuna delle quali è l’immagine. Tutte testimoniano l’esistenza di un’immagine dalla quale sono cadute. Tutte recano in sé la possibilità di essere in qualche modo messe insieme, come facevano i grandi mosaicisti. Come facevano? Come riuscivano a trarre da quelle centinaia di pezzi di pietra un’unica figura, così imponente, commovente, bella, spirituale? Il fatto è che avevano dentro di sé un’immagine. Era l’immagine interiore che creava ciò che scorgiamo come entità visibile. Vorrei ricordare en passant che Michelangelo parla di questo quando usa il termine ‛immagine del cuor’.
Attraversiamo continuamente delle soglie nell’arco della nostra vita, e spesso ciò avviene attraverso uno schermo digitale, per esempio guardando un film. Lo stesso accade osservando un dipinto, ascoltando musica, danzando, e così di seguito per tutte le arti. Ma non tutti i film, non tutte le musiche sono portali. Esistono immagini che hanno una vita propria all’interno della cornice, e nel momento in cui noi le ingeriamo, esse si muovono nel nostro sistema come gli alimenti e vengono assimilate dagli organi a seconda della loro mansione. Significa che hanno il potere di risvegliare in noi funzioni vitali assopite o addirittura atrofizzate. Questo genere di immagini ci trasformano, ci dirigono fin dove avevamo paura di andare, facendo svanire quel timore. Ci sentiamo osservati da queste rappresentazioni perché ci parlano intimamente. Possiamo scambiare il soggetto o l’oggetto raffigurato con la nostra persona, o con parti di noi che vi si rispecchiano e, come leggendo un libro, entriamo in una dimensione alla quale ancora non avevamo accesso.
Nell’epoca degli ‛Usi e Consumi’ di «immaterialità» abbiamo bisogno di abbandonarci al potere rivoluzionario delle ‛vere’ Immagini. Della «spettacolarizzazione della vita» di cui scrive Guy Debord, siamo noi le vittime: noi che rendiamo prezioso un qualsiasi social network. È della nostra vita che abusano, per creare spettacolo e per distruggere la connessione spirituale con le Immagini.
Tutto ciò che è arte crea immagini interiori: dalla musica al cinema. Esse sono il nostro traghettatore in un mare di apparenze e superfici piatte perché hanno il potere di ribaltare il significato esplicito, di fare un taglio, come quelli di Lucio Fontana, i quali ci indicano che là dietro vi è qualcosa di invisibile. Quando non si riesce ad entrare in contatto con il valore dell’arte contemporanea, per fare un esempio, viene facile giudicare le opere, e spesso si sente dire Lo potevo fare pure io’. Ma cosa era così ‛facile’ agli occhi di queste persone? L’oggetto di per sé – è a quello che pensano. Vedono la Fontana di Marcel Duchamp e credono che chiunque possa prendere un oggetto e dire che è qualcos’altro. Ma il potere di quell’opera non è nel verbo, è nella visione. «Quello non è un orinatoio», avrebbe magari detto Magritte.
Allora quando entriamo in contatto con quelle verità nascoste, non siamo più bulimici, piuttosto diventiamo affamati proprio grazie al nutrimento di tali Opere d’Arte. Perché nelle immagini false la bulimia porta all’appiattimento della fame, ed è la noia a muovere la ricerca di altre forme di rappresentazione, per sopperire al vuoto costante che alimentano. Il nostro corpo perde la sua connessione con l’universo perché non è più in grado di sentirlo dentro di sé, se non lo vede. E questo porta all’overdose di palliativi velenosi che possano dare una forma fissa all’universo, che fisso non è.
Ecco la vera questione: continuiamo a pensare che l’immagine sia quella che vediamo. Non capiamo che vediamo per mezzo delle immagini. È così che comprendiamo il mondo. Vediamo una forma o anche qualcosa di più profondo o che in qualche modo ci tocca, ma se il fenomeno non passa attraverso l’immaginazione, non è immaginato, non ha significato: ci scavalca, ci sfugge.
Ciò che è veramente sostanzioso per noi esseri umani è l’immaginazione, la quale raggiunge l’anima grazie alle emozioni. Quello che Hillman chiama il nostro «crollo contemporaneo», riguarda le emozioni ‛intrappolate’ che non hanno più la loro via di trasformazione che è l’immagine interiore: «il fallimento universale dell’immaginazione».
Ci sono cornici in cui rischiamo di rimanere intrappolati, che ci ipnotizzano a tal punto da spingerci a fare la loro volontà; è ciò che fanno quelli che oggi chiamiamo idoli, pop star, star del cinema e così via. Attraverso di loro viviamo nel mondo, scegliamo cosa mangiare, dove viaggiare, che cosa indossare. A quel punto non siamo più bulimici di immagini ma avidi dei loro messaggi. Diventiamo consumatori di pubblicità e assertori di propagande. Rischiamo, così, di rimanere intrappolati nella patina sbrilluccicante e fluorescente delle immagini false.
Pensando a quello che scriveva Guy Debord sul «monopolio dell’apparenza», non si può fare a meno di chiedersi: a cosa serve riprodurre la realtà se lo scopo è solo di creare una copia identica? Deve esserci qualcosa in quella copia che aggiunga un nuovo punto di vista alla realtà. Se si pensa al cinema underground, da Jonas Mekas a Stan Brakhage, le riprese che inquadrano eventi della quotidianità, che non richiedono recitazione, effetti speciali o altre patine di finzione, arricchiscono la nostra visione del mondo grazie alla connessione delle scene. È grazie alla complessità del cucire il film in un unico corpo; sono i dettagli che costellano un’inquadratura che fanno emergere con forza il suo punto di fuga, che spesso è il volto, la figura. È quella che ci rapisce e ci conduce poi nel suo mondo segreto. James Hillman le chiama ‛immagini invisibili’ perché ci consentono di entrare in contatto con parti di noi sconosciute, o dimenticate. Sono queste le immagini ‛che tacciono: ci osservano in silenzio lasciandoci il nostro tempo di integrare i loro sguardi. Tacciono perché non ci richiedono di agire o di comprare. Tacciamo anche noi con loro e, forse, in silenzio, attuiamo le nostre più intime trasmutazioni.
Fonti:
G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini+Castoldi, 2019.
J. Hillman, S. Ronchey, L’ultima immagine, Rizzoli, 2021.
I. Illich, La convivialità, Red Edizioni, 2013.
J. Mekas, Conversations with filmmakers, Spektors Book, 2018.
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