Gli antichi sono stati maestri del pensiero e la preveggenza ha da sempre esercitato un ruolo essenziale sia nella loro vita che nelle loro opere letterarie e filosofiche. Nessuno tuttavia avrebbe potuto prevedere che nelle meditazioni greco-latine sul concetto di corpo sarebbe stato insito un complesso binomio moderno.
Nelle Meditazioni cartesiane del 1931 il filosofo tedesco Edmund Husserl bifidizza il termine ‘corpo’: il Körper ( = corpo-oggetto / rappresentazione) è quel che uno ha, che occupa uno spazio, misura di certe grandezze come il peso e l’altezza; il Leib è invece è definibile come entità che risponde in modo specifico all’esperienza. Il primo è proprio di tutti, mentre l’altro determina possesso e peculiarità in quello che Husserl definisce l’«atto percettivo». Qui uno è ad un tempo il soggetto che percepisce e l’oggetto che viene percepito: conosce attraverso l’esperienza ed è corpo vissuto, ma sempre sul punto di oggettivarsi.

«Qual è la differenza tra il corpo che sono e il corpo che ho, che il medico esamina e cura?», si chiede il Dr. Frick, filosofo specializzato in medicina psicosomatica.
L’intellettuale francese Merleau-Ponty (1908-1961) tradusse Leib con il francese chair, «carne viva», che abita i corpi in modo così diverso da potersi definire peculiare: l’esperienza è il risultato della carne abitata da una chimica specifica per ogni essere, la quale esercita pressioni e direziona le scelte, con una subordinazione dell’organo fisico all’esercizio di un raziocinio su tale organo.
Il pensiero occidentale, dotato di categorie mentali orientate soprattutto in senso metafisico, ha potuto intendere il corpo prevalentemente come oggetto e rappresentazione. L’influenza platonica – anche solo passivamente – aveva relegato il corpo in una posizione subordinata rispetto all’anima; in 400c del Cratilo si legge:
Dicono alcuni che il corpo sia séma (tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente.
Terenzio, commediografo latino attivo tra il 166 a.C. e il 160 a.C., è stato oggetto di studio per il suo coerente impiego della retorica in situazioni in cui poteva essere richiesta – per la cultura del tempo – una censura. Per esempio nella commedia del Phormio, ai vv. 109-110 il personaggio che parla, Panfilo, attua una chiara autointerruzione del discorso a proposito della bellezza di una fanciulla, che non è altro che la bellezza del suo corpo fisico, oggetto. Il suo padroncino, evidentemente innamoratosene, è riuscito pur con difficoltà a trattenere verbalmente emozioni piuttosto ribollenti.
Se Terenzio era un cultore del discorso ripulito da ogni eccesso, orientati verso una pudicizia estrema furono i florilegi carolingi della trasmissione testuale di Marziale. La prima famiglia di codici, convenzionalmente chiamata α, pur essendo la migliore in quanto a genuinità di testo, è anche connotata da martellanti interventi che sostituiscono arbitrariamente termini scabrosi con eufemismi. Si tende a censurare il verbo dell’accoppiamento eterosessuale (futuere) con metafore del mondo agricolo (subigere, salire, tractare) e il nome dell’organo femminile (cunnus) con monstrum, evidentemente inteso come disgrazia orripilante da eliminare ad ogni costo. Stesso fenomeno si riscontra nel copista del codice Veronese, contenente i carmi di Catullo. A 16.1 pedicabo, verbo della sodomia, viene automaticamente sottoposto ad una moralizzante mutazione in dedicabo, fortunatamente per noi facile da individuare, data la conoscenza diffusa e del citato (Catullo) e del contesto citante (XIV o XV secolo).
In tutte queste accezioni il corpo è pensato secondo il classico paradigma della “cosa che possiedo”, il Körper, da Platone per statuto, da Terenzio per pudicizia, dai redattori di florilegi e codice per disprezzo. Solo nel Novecento il binomio corpo-animato / corpo-vissuto diventa sistematico e chiaramente riconoscibile nella psicoanalisi matura di Freud; quindi in occasioni in cui il culto del corpo esige censura, i paradigmi pre-novecenteschi non immaginano l’innocenza del Körper e trascurano l’incidenza del Leib. Essendo il corpo-carne (Leib) nient’altro che una trama di differenze da cui risultano corpi-oggetto diversi e inappropriabili, è possibile che questo modo di intendere il corpo come bino inauguri un’etica, che riabilita il velo non come mezzo che nasconde, ma come sipario che rivela. Piccola riflessione sulla base degli esempi di moralizzazione fatti – e di quelli innumerevoli che si potrebbero fare – a proposito dell’antichità è che se gli antichi avessero conosciuto anche il Leib (l’idea dell’esperienza come punto di inizio per l’oggettivazione), forse non si sarebbero così tanto affannati per l’occultamento del Körper nella sua forma naturale.
Non si sta tentando di svalutare la prospettiva storica: è chiaro che come scatole cinesi le riflessioni di Schopenhauer, poi Freud e i sopra citati abbiano influenzato le moderne categorie di corpo bino. Ma è anche vero che la prospettiva storica e quella filosofica si intersecano alla perfezione, dipendendo l’una dall’altra in modo complementare: forse che il Körper era in antichità così tanto spaventoso perché non si aveva idea dell’esistenza del Leib?
Fonti:
Cusinato G., Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, FrancoAngeli, Milano 2018, pp. 81-84.
Erbuto D., Riflessioni sull’esperienza della corporeità: tra Leib e Körper, in: «Rivista dell’I.I.F.A.B.» [online], n. 7. Disponibile da: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/corpo/erbuto.pdf
Mastandrea P., Sostituzioni eufemistiche (ed altre varianti) nei florilegi carolingi di Marziale, in «RHT», n. 26, 1996, pp. 103-118.
Leib o Körper, chair e corpus: la filosofia e la nozione di corpo. Intervista a Mauro Carbone. A cura di Rozzoni C. – Bianchetti M., in «Chora», anno IV, n. 9, 2004.
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