Racconto per la rubrica Bricolage Letterario di Serena Votano

«Odio avere il ciclo. Lavorare in un ufficio mi ha portata al confronto con gli altri. È un po’ come quando a scuola di danza si osservano i corpi riflessi negli specchi e ci si sofferma sul proprio. Accade la stessa cosa: tra le scrivanie le differenze si accentuano. I miei colleghi maschi non hanno cinque giorni al mese in cui non riescono a fare lavori forti. Non hanno il terrore di alzarsi di scatto dalla sedia, di dover controllare i pantaloni.» 

Dalia cerca una posizione comoda e la trova stringendosi le ginocchia al petto. Si fa piccola sul suo divano, tra schienale e cuscino. 

Mi ha preparato un tè caldo, stringe la sua tazza tra le mani, mentre una televisione ci osserva e ci mostra un salotto di preoccupazioni. Respiro il profumo di limone e zenzero. 

«In parte ti capisco, non sopporto ricevere scatole durante il ciclo. Ho sempre la sensazione che, alzando quelle scatole dal pavimento, ogni goccia del mio sangue possa scappare da qualsiasi lato. È soltanto una paranoia, sì. Ma mi limita.» Accavallo le gambe.

«Esatto, è limitante. Così come sapere che, nel premestruo, mi sarà difficile gestire i “No” e lo svarione dei miei superiori. Sentire perennemente fame e poi non sopportare il cibo perché la nausea, sotto stress, è all’ordine del giorno. Aver voglia di piangere, anche se questo è più raro.»

«Un po’ di tempo fa avevo sempre l’ansia del ciclo a un appuntamento. Facevo di tutto per non incontrare i ragazzi con cui uscivo. Poi, in realtà, con gli anni mi è passata. E poi, lo sai, è da quando ci conosciamo che mi sembra di rincorrere la vita. Quei cinque giorni passano subito…»

«Sì, passano ma per tre giorni ho dolori atroci, mi fa schifo tutto e sento il sangue colare via. Cinque giorni al mese in cui lentamente moriamo dissanguate.»

«Se ci fosse un ragazzo, qui con noi, sarebbe già arrossito. È così difficile parlare di ciclo, a volte anche tra ragazze.»

Dalia sembra spenta, assente come quelle bambole sul baule della nonna, quelle che chiudono gli occhi quando le distendi lunghe. Dice: «Be’, nella mia famiglia siamo tutte donne. A parte mio padre, ovvio. Il ciclo non è stato un segreto sin da piccola. Anche se mia madre è sempre stata in menopausa, da che ho memoria. Le mie sorelle segnavano i giorni con piccoli cerchi rossi sul calendario. Non mi è mai stato spiegato il perché, non un discorso. Però lo sapevo, ecco. Si trattava di quei cinque giorni che non mi riguardavano affatto. Mi sentivo incompleta».

«Ti dirò, per mia madre non è stato così. Nessuno le aveva mai parlato delle mestruazioni, non l’avevano avvisata del sangue. All’improvviso, eccolo lì. E così, quando son nata io ha deciso che mi avrebbe dovuta preparare per tempo, a cinque anni pretendeva che io indossassi l’assorbente. “Così t’abitui” diceva. Ma che matta. Menomale che c’era mio padre.»

Ride, amara. «Sai che io, invece, da piccola desideravo tanto che mi venisse il ciclo? Andavo alle medie e mi capitava di sentire le mie compagne parlare di mestruazioni. Ne parlavano sottovoce, come se fosse il segreto di una massoneria esclusiva a cui non ero ammessa. Un quadrato viola passava di mano in mano, furtivamente, e due alla volta andavano in bagno. Era uno Sleepover Club di cui non potevo fare parte. E anche le mie migliori amiche evitavano di parlarne con me. Si parlava di ragazzi, di trucchi e vestiti. Basta.»

«Be’, sì… tra compagne c’era una sorta di gara a chi veniva il ciclo per prima.» 

«Io avevo proprio dei riti. Prima di dormire, appoggiavo le mani sotto l’ombelico e massaggiavo. Ero convinta di non avere le ovaie e non sapevo nemmeno cosa fossero. Speravo di correre da mia madre per dirle della novità. Che anch’io avevo le mie cose, che stavo diventando un’adulta. Volevo che mi notasse, che fosse fiera di me.»

Non ho mai davvero capito il rapporto che Dalia aveva con sua madre, sarà perché eravamo già donne quando ci siamo conosciute. Sarà perché l’ho sempre vista come la madre di se stessa.

«Mi sono venute mentre giocavo a pallavolo. Stavo in prima fila, salto per schiacciare e sento le mie compagne ridere perché mi sono macchiata. Non male come prima volta, eh…» rido. Sento quasi affetto per la bambina che ero, per la mia ingenua inesperienza.

Dalia continua: «A me, invece, è successo in una giornata particolarmente grigia, sull’autobus di ritorno da scuola. Mi sentivo debole, come se stessi per svenire. Ero in terza media, in quei mesi dovevo scegliere in quale scuola superiore iscrivermi, e alle mestruazioni non ci pensavo poi così tanto. Ormai era troppo tardi. Arrivata a casa, in bagno, eccole lì. Era una sproporzionata macchia rossa. Pensavo fosse un’emorragia.

«All’inizio mi sentivo felice. Ero convinta che quella notizia avrebbe appianato le prime crisi con mia madre. Ero una sua pari, adesso. Anzi, donna come lei non era più. Durante l’università, nulla di che. Adesso il ciclo è diventato un tormento. Anzi, il pensiero del ciclo.»

«Lo dici per Antonio?» l’unico ragazzo di cui Dalia mi abbia mai parlato. Dopo la laurea avevano cambiato città, entrambi hanno scelto di seguire la loro strada, pensare alla carriera anche a costo di perdersi. Ma non si erano mai persi. In un modo o nell’altro, a distanza di anni, sapevano come ritrovarsi.

«Ma no, a lui non ha mai dato fastidio. Pensa che mi è venuto il ciclo la prima volta che abbiamo scopato.» Ha gli occhi nervosi. «Che paradosso…»

Ma insisto: «In che senso?».

«È che ultimamente mi sono sentita un po’ strana… qualche giorno fa avevo alcune macchia di sangue, il ciclo era in ritardo e pensavo fosse per quello. Il giorno dopo, più nulla.»

«Ma hai provato a fare un test? Sei andata dalla ginecologa?» chiedo.

«Due lineette.»

Incinta.

Dalia è incinta.

Continua: «Io non ho mai sentito di voler diventare madre. La mia vita è un quadrato perfetto, fino a qualche giorno fa neanche ci pensavo. Con un uomo fisso non sarebbe diverso. Sono molto egoista, lo sai». Eppure un uomo nella sua vita c’è. 

«Però?»

«Però quel primo ritardo… non lo so, ho iniziato a pensare che è arrivato quel momento. Da un lato sento la paura di non essere all’altezza, di cadere negli stessi banali errori dei miei genitori, se non peggio. Tu te lo ricordi cosa vuol dire essere figli? Intendo bambini. C’ho pensato bene, un figlio è un impegno. Annullarsi per qualcuno che non potrai mai annullare.»

Non ha mai parlato d’amore. Speranza, desiderio, sì. Mai amore. 

Si avvicina a una scatolina di legno, abbandonata sul tavolino davanti al divano, il rumore ricorda il tic delle gocce che scivolano dal rubinetto. Tira fuori un ciuccio rosso.

«Mi sono immaginata madre di una ragazzina.» 

Quasi me la immagino. Dalia, intenta a scrutare tra le vetrine dei negozi, mentre un mostriciattolo dai capelli castani le stringe una mano. Cerca di attirare la sua attenzione ed è pronta a urlare pur di avere sua madre tutta per sé. La disperazione come tattica.

Ma Dalia inizia a piangere. «Davvero divertente, ho odiato così tanto il ciclo che alla fine mi è successo veramente, è saltato proprio a me.»

«Hai pur sempre quarantadue anni… Magari è solo stress.»

«È che avevo come un presentimento. Uscita dal lavoro, mi sono fermata nella farmacia qui sotto e ho comprato un test di gravidanza. Tornata a casa, ho scoperto di essere incinta e ho prenotato una visita dalla ginecologa. È tra qualche giorno, ma ormai è inutile…»

«Non capisco.»

«È inutile perché ho ancora le mie cose…»

Un promemoria lì a ricordarle che ha fallito come madre, prima ancora di iniziare.

Vuol dire che non è il momento. Vuol dire che andrà bene così, in ogni caso. Vuol dire che l’amore può moltiplicarsi in altre forme. Una donna a metà ha pur sempre il coraggio che serve necessariamente per amarsi, per perdersi.

Due lineette.

Errore.

Dalia non è incinta.


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