Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti […] Thamus gli chiese quale fosse l’utilità di ciascuna di esse […] quando poi fu alla scrittura, Theuth gli disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza.»
Questo breve passo è estrapolato dal Fedro di Platone e, più precisamente, dal dialogo tra Socrate e Fedro. È Socrate a raccontare il famoso mito di Theuth, affrontando il tema della scrittura.
Il Fedro è uno dei dialoghi più problematici di Platone, sin dall’antichità, infatti, gli studiosi si sono chiesti se rientrasse nei suoi dialoghi giovanili o se facesse parte di quelli della vecchiaia, e questo perché l’ultima parte sembra essere in discontinuità con il resto.
Proprio su questo passaggio si è incentrata la decostruzione di Jacques Derrida, filosofo francese contemporaneo morto nel 2004, che si sofferma sull’analisi del termine greco Pharmakon, il quale può essere tradotto sia con cura che con veleno.
Il Pharmakon, in questo piccolo passo, assume una valenza positiva, poiché viene presentato da Theuth come una cura, un rimedio contro la dimenticanza.
L’ambivalenza di questo termine però non lo rende solo un rimedio.
[…] Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell’anima di coloro che la impareranno la dimenticanza […] perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria.
Come dice Thamus, attraverso la penna di Platone, il Pharmakon può essere anche un veleno per la memoria. La scrittura infatti aiuta a ricordare, ma affidarsi troppo a essa può condurre a un rilassamento eccessivo della memoria e di conseguenza al non ricordo.
In questo dialogo, finora, sembra che la scrittura sia un veleno nei confronti della parola, perché in essa manca la persona parlante e di conseguenza pensante, ovvero la presenza. Attraverso questa chiave di lettura, la scrittura è puro esercizio di memoria (hypòmnesis) e nulla ha a che fare con la conoscenza, sarebbe solo ripetizione e non condurrebbe a quel processo di reminiscenza che, se stimolato dalla percezione di oggetti sensibili, potrebbe portare l’uomo a scoprire, progressivamente, nel proprio intelletto, le idee.
Dando una lettura superficiale, cogliere il messaggio del filosofo ateniese risulterebbe abbastanza chiaro, ancor di più se si ricollega questa riflessione sulla scrittura a ciò che emerge del pensiero complessivo di Platone.
Ma è proprio qui che entra in gioco Derrida, il quale operando una attenta riflessione, mostra tutta la problematicità del Pharmakon in relazione alla scrittura.
Essa è pericolosa, almeno la scrittura sensibile, poiché non ha Padre. In che senso? Mentre, nel parlare, colui che emette il suono è reale, è presente e identificabile con un individuo, la scrittura, al contrario, sfugge alla legge della presenza, chi scrive non sempre corrisponde a un individuo preciso. Questo è il motivo per cui Platone sceglie di adottare il dialogo come forma di scrittura, per riprodurre una normale conversazione tra individui in presenza.
Ma perché c’è questa attenzione alla presenza in Platone? Perché la presenza corrisponde alla verità. Come è stato scritto, la diffidenza che Platone aveva verso le cose materiali sta alla base del suo filosofare e può essere confermato accennando brevemente a un famosissimo mito, quello della biga alata (presente nel Fedro):
La simbologia del mito della biga alata sta a significare che l’anima è in parte affine al mondo divino, ma ha in sé un principio che la trascina verso la sfera del tempo e della e della vita terrena, allontanandola dagli dei e dalla verità.
L’anima costituisce per Platone quell’entità metafisica che è stata in contatto col mondo delle idee nell’Iperuranio e di conseguenza conosce la verità. Il problema viene a crearsi quando l’anima, allontanandosi dall’Iperuranio, entra in contatto con il corpo, il quale rappresenta la materialità, la corruzione e la contingenza.
Semplificando al massimo questo discorso, la scrittura sensibile ha a che fare con la materialità, quindi costituisce il male, la non verità, al contrario la parola viva rappresenta la verità, poiché è diretta emanazione del pensiero, e quindi proprio della verità. La parola viva non è corrotta dal sensibile o comunque lo è in modo minore rispetto alla scrittura.
Scavando più affondo, Derrida mostra come Platone nel Fedro si scagliasse ferocemente contro la scrittura perché è un ‘morto-vivo’, ma in altri dialoghi come la Repubblica o le Leggi sembra fare un passo indietro.
Proprio le leggi, afferma il filosofo ateniese, sono emanazione del Padre, la scrittura è il figlio bastardo, questa è rappresentata nei dialoghi da Socrate, poiché a lui è affidato il compito del Padre, del fratello maggiore, colui che sa.
La scrittura sensibile è ripetizione della parola viva, ma esiste un altro tipo di scrittura, che è presente nell’anima la quale rappresenta una traccia, un segno del mondo delle idee, questo secondo tipo costituisce la verità, il logos, che Platone non condanna.
Derrida semplifica così:
Il logos scritto non è che un mezzo per chi sa già […] di rimemorarsi […] delle cose al cui riguardo vi è scrittura […]. La scrittura quindi interviene solo nel momento in cui il soggetto di un sapere dispone già dei significati che la scrittura perciò non fa altro che consegnare.
Si è di fronte a due tipi di scrittura che si ripetono, di fronte al vero e non vero, da un lato vi è la ripetizione per eccellenza, senza la quale non vi sarebbe verità, ovvero l’Eidos (l’idea), traccia del mondo intelligibile che si riproduce come dialettica o maieutica, dall’altro lato non verità,cioè il veleno del pharmakon, che si disperde, senza Padre, e costituisce la cattiva memoria.
Queste due ripetizioni sono facce della stessa medaglia, entrambe legate e inseparabili, cura e veleno per l’anima, bene e male. In questo gioco di opposti si ritorna a quello che Theuth intendeva per Pharmakon.
In merito a questo concetto di pharmakon, sarebbe possibile oggi proporlo in merito alle innovazioni digitali e soprattutto ai social network, da intendere anch’essi come cura e veleno?
Fonti:
Derrida J., La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 2007.
Pancaldi M., Trombino M.,Villani M., Atlante della filosofia gli autori e le scuole, le parole, le opere, Editore Ulrico Hoepli Milano, Milano 2006.
Platone, Fedro, trad. it. P. Pucci, Laterza, Roma-Bari 2005.
Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 2007.
Platone. Tutte le opere, a cura di Enrico V. Maltese., Newton Compton Editori, Roma, 2013.
http://paolaghione.blogspot.com/2012/09/derrida-la-scrittura-come-pharmakon.html
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