Fino a che punto ci si può nutrire di immagini? E, quando diventano tossiche? Nel saggio La società dello spettacolo, il cineasta Guy Debord anticipa la spettacolarizzazione della vita in una realtà dove si fa fatica a distinguere l’autentico dalla copia.
Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso. 1G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, 2019. Introduzione di Carlo Freccero e Daniela Strumia. Pag. 66.
Si va in overdose di immagini nel nostro secolo; si diventa dipendenti dalla loro inesorabile diffusione. Ci si ammala di riproduzioni della realtà, iniettate attraverso la televisione o i social media, le quali non lasciano più spazio all’autenticità dell’esperienza.
One and three chairs, opera del 1965 dell’artista Joseph Kosuth, introduce un tema centrale alla ricerca del cineasta, scrittore e stratega-filosofo francese, Guy Debord. Li accomuna la passione per la rappresentazione, dove questa cela la realtà. Nell’opera concettuale di Kosuth, una sedia viene esposta appoggiata al muro. Alla sua destra è appesa sulla parete la stampa della parola ‘sedia’ e la definizione del vocabolario. Alla sua sinistra vi è la fotografia di una sedia. Quello che ha intuito l’artista è che nell’era della rivoluzione digitale, ogni qual volta si osserva la riproduzione fotografica di una sedia, per esempio, se sottoposti alla domanda «cosa stai guardando?», il soggetto risponderà «una sedia» e dimenticherà la parola foto, per quanto si è continuamente sottoposti alle immagini fotografiche. Come la pipa di Magritte non è l’oggetto concreto ma solo la sua raffigurazione, così la fotografia della sedia è unicamente la riproduzione dell’oggetto concreto.
Debord pubblicò il suo saggio sull’immaterialità della produzione di spettacoli, nel La società dello spettacolo, del 1967. Nel suo testo descrisse una società assoggettata al «monopolio dell’apparenza», abituata a prendere la vita per uno spettacolo, e a spacciare per spettacolo la vita. Riguardo al suo saggio, Enrico Ghezzi lo dichiarò uno tra i più rubati e meno citati dal Sessantotto in poi. Epoca, la fine degli anni Sessanta, dove la mercificazione e il capitalismo delle merci imponevano nuovi atteggiamenti verso l’industrializzazione, e le teorie di Karl Marx a riguardo venivano prese e assorbite nel modo più manipolatorio possibile.
Dal materialismo degli anni Sessanta siamo giunti alla completa smaterializzazione di oggi in cui anche la realtà è virtuale, e quindi, spettacolare. 2 G. Debord, Ibidem. Pag. 16.
Il saggio fondamentale di Ivan Illich – scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco – La convivialità (1973), descrive perfettamente in quale direzione si affaccia l’essere umano con l’industrializzazione. Agli albori di una nuova modernità, Illich intuisce che l’uomo non sarebbe divenuto più libero grazie alle macchine, ma al contrario ne sarebbe diventato lo schiavo, laddove non avrebbe più potuto continuare a vivere senza di esse.
Prima di lui, Debord prevede la malattia che possono generare le immagini attraverso le macchine, facendo della vita una merce per spettatori abulici. Un orizzonte dove l’essere umano è assoggettato alle immagini, così come per Illich l’uomo è vincolato ma soprattutto vittima della rivoluzione industriale.
Potremmo chiamare la nostra epoca quella degli ‘Usi e Consumi’ di «immaterialità», che diventano i nuovi ‘costumi’. È in scena che si vive. È con la spettacolarizzazione della propria vita che ci si ‘nutre’, perché c’è a chi dà da vivere.
Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione. […] Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini. 3 G. Debord, Ibidem. N. 1, pag. 63. N. 4, pag. 64.
Riguardo ai mediatori di immagini, i media, fu Walter Benjamin a coniare il termine «immagine dialettica», che come un fulmine a ciel sereno, riesce a illuminare il passato e il futuro grazie al presente, e, dunque, ci permette di vivere l’esperienza storica. Non solo i media sfruttano le immagini per raccontare la storia del nostro tempo, ma è vero anche il contrario, nel momento in cui la storia viene sfruttata per generare immagini al servizio di narrazioni manipolatorie.
La digitalizzazione progressiva ha fatto sì che si introducesse la necessità primaria di ciò che non è materiale, come seguire personaggi pubblici in un reality show, che trasforma il tempo della vita quotidiana nell’illusorietà di avere vissuto qualcosa che, invece, abbiamo solo osservato passivamente.
Gli ‘Usi e Abusi’ di spettacolarizzazioni ci conducono nella parte più oscura della nostra contemporaneità, senza lasciare la possibilità di portare con noi la conoscenza di tale tenebra.
Per guarire, bisognerebbe tacere con le immagini. Ormai che ne abbiamo accumulate fino al punto di non poterle più digerire, ora che non danno più nutrimento ma vanno solo a intasare gli intelletti, bisognerebbe ‘mettersi a dieta’ di immagini. Bisognerebbe assorbire solo quelle essenziali lasciando che il resto scorra nei dispositivi elettronici senza rivolgergli la nostra attenzione. Perché esse fluiscono inarrestabili, e se non siamo in grado di scegliere su cosa concentrarci, diventano automaticamente divoranti.

Se lo spettacolo non ha alcuno scopo di essere, ma vuole solo che ci si devoti al suo sviluppo, dove ci condurrà il continuare ad alimentarlo?
Cosa genererà, a livello profondo, perdere contatto con la nostra sfera intima ormai divenuta «spettacolare», o peggio «spettacolista»?
E, nel momento in cui la vista diventa il ‘primo’ dei sensi, come spiega il cineasta, e si lascia ormai al tatto l’ultimo posto, cosa ne sarà della vista se continuerà a essere intossicata di falsi spacciati per veri? Cosa ne sarà di una società dove il tatto diventerà un senso astratto?
Quale possa essere la soluzione al male del nostro tempo riguarda sicuramente un rovesciamento dei ruoli, facendo dell’uomo un creatore di immagini e non un essere strumentalizzato dalle proprie immagini.
Per concludere con le parole di Ivan Illich:
Chiameremo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività.4 I. Illich, Ibidem. Pag. 14.
Fonti:
G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, 2019