Immaginate di star seduti su un aereo, nel mezzo di un comodo viaggio che avete programmato con cura, di cui avete definito i dettagli, le tappe, gli incontri. Si direbbe che avete «strappato lungo i bordi» per prepararvi a quel momento. L’eccitazione si fa sentire, le gambe diventano gracili e i piedi premono forte sul pavimento: l’ansia del movimento.
Accanto a voi siede un bambino, ignaro compagno di viaggio con cui non condividete nulla se non la prossimità fisica di quel momento. Gioca sereno, occhi estatici sullo schermo.
Poi, l’imprevisto: un leggero scossone, il tavolino comincia a vibrare, i più sensibili emettono suoni confusi, le luci si accendono a intermittenza. È la prima turbolenza: ce ne sarà un’altra e un’altra ancora. Il bambino siede di fianco a testa bassa, confuso per quello che sta succedendo. È il suo primo volo. Le maschere dell’ossigeno cadono giù e vi affrettate ad aiutarlo, a prestargli soccorso, ma, come vi hanno spiegato gli assistenti di volo più d’una volta, ognuno deve pensare al proprio ossigeno, alla propria cura, prima di potersi dedicare agli altri.
Come afferma Mortari:
L’essere umano nasce mancante, e per tutto il tempo della vita ha necessità di procurare cose per conservare la vita e riempire di senso l’esperienza nel mondo. L’evento difficile della pandemia ha reso evidente quello che si tende a dimenticare: la primarietà della cura.
Il concetto di cura verso gli altri passa indissolubilmente dalla cura verso se stessi nel non esporsi al rischio della malattia; perché diventare malati vuol dire mettere a rischio la vita di chi ci circonda.
Una caratteristica di questi tempi sembra corrispondere allo stato di ‘necessità’, come se dovessimo sentirci al sicuro, tra la nebbia dell’autoconservazione e dell’indifferenza, ma comunque senza certezza di futuro; ognuno attento alle proprie costruzioni.
L’idea di prendersi cura e di proteggere qualcuno costituisce l’atto d’amore più puro e nobile che possa essere esercitato da una persona. Ma siamo ancora in grado di farlo?
Il centro sembra risiedere, oggi, nella volontà di stabilire degli equilibri dove, in realtà, sono venuti a mancare dei pilastri fondamentali: è diventato difficile farsi carico degli altri perché abbiamo smesso di prenderci cura di noi stessi, di alimentare i sogni, l’avventura, la scoperta dell’alterità. Questo perché l’esperienza del presente non è riconducibile a nessuna misura di tempo interiore; la vita diventa sparsa tra le pieghe dello spazio concesso. Diventa difficile farsi carico degli altri, curando se stessi. Diventa difficile coltivare la stabilità dei rapporti senza certezza di futuro.
Pensando a quel bambino che abbiamo di fianco, verrebbe voglia di aiutarlo, di stargli vicino, di fargli capire che andrà tutto bene. E quante volte ci siamo ripetuti la stessa cosa?
Quando, un anno fa, Palin è uscito fuori dalla sua boccia di vetro, il superamento del primo limite sembrava consistere nel non inciampare al primo gradino: uscire fuori nel mondo, con voglia di partecipare, discutere, studiare era un modo per curare la solitudine. Abbiamo passeggiato, respirato, toccato e visto la bellezza e la diversità, ciò che l’esperienza riesce a trasmettere e che sa insegnare in modo salvifico.
Di fronte a quello che ci ha mostrato quest’ultimo periodo, davanti alle semplici regole del cielo e della terra, tutto quello che ci ripetiamo, tutto quello che vorremmo per gli altri, tutta la cura e l’amore che vorremmo portare nel mondo, forse, dovremmo portarla anche dentro di noi.
Curare se stessi per poter guardare quel bambino che siede accanto, sorridergli e dirgli che, se non andrà tutto bene, noi cercheremo di fare tutto il bene di cui siamo capaci.
Tutto il meglio che serve.
3 Comments
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