Vediamo quello che sappiamo ma è oscuro ciò che non conosciamo: un breve viaggio attraverso il linguaggio simbolico delle chiese medievali a Bologna.
Stiamo attraversando un periodo particolare e il mondo della cultura ne sta risentendo moltissimo: i musei, i cinema, i teatri, i concerti ecc. sono stati costretti a interrompere le loro attività ordinarie. Non senza polemiche, le chiese sono tra i pochissimi luoghi di cultura – oltre che di culto – accessibili e forse è questo il momento ideale per dedicare loro un po’ della nostra attenzione, al di là della fede.
Passeggiando per le strade di città come Bologna, con uno dei centri storici medievali più grandi e meglio conservati in Italia, si nota come il tessuto urbano sia gremito di cappelle e edifici di culto (sconsacrati e non), anche se ciò che vediamo oggi non corrisponde a quello che l’uomo medievale vedeva quando vi entrava; molti allestimenti sono cambiati, varie ristrutturazioni si sono susseguite nel corso del tempo e le opere d’arte allora presenti sono state spostate, se non trasferite altrove.

Nelle città in seno allo stato pontificio, tra le quali anche Bologna, il Cristianesimo è sempre stato naturalmente e largamente diffuso e praticato sin dai primordi.
Ed è durante il periodo paleocristiano che la religione era molto partecipativa, anche se a partire dall’XI secolo la Chiesa di Roma avviò una serie di riforme che culminarono nella cosiddetta Riforma Gregoriana. Il papa da cui trae il nome, Gregorio VII, si prodigò per sciogliere la Chiesa dal giogo imperiale, pronunciandosi rigidamente contro il nicolaismo (il matrimonio di membri del clero) e contro la simonia, ossia la compravendita delle cariche religiose; per dirla in breve, ci fu una riappropriazione della propria aura sacra, schiva d’ogni mondanità, che tradotto nel linguaggio artistico e architettonico significo occultamento e chiusura.
Già nel XII secolo, ma soprattutto poi nel XIII, si poteva notare una particolare tendenza proprio nella città delle Due Torri: dividere lo spazio di una chiesa secondo una precisa gerarchia, volta a tenere ben separati il clero dai comuni fedeli laici. Vennero pertanto erette delle particolari strutture, dette tramezzi: dobbiamo immaginarli come dei paramenti murari piuttosto elevati, spesso ricchi di decorazioni e opere pittoriche, che andavano a separare la navata, cioè lo spazio del fedele, dal «luogo santissimo»[1], connotato architettonicamente dall’abside e dall’altare maggiore e accessibile pertanto solo al clero. Sull’altare maggiore si celebrava la liturgia eucaristica, è quindi questo il luogo in cui avviene la transustanziazione del corpo e del sangue, simbolicamente espressa dall’elevazione dell’ostia.

Se oggi entrassimo in una chiesa potremmo liberamente assistere a questa liturgia, ma allora non era così. La partecipazione del fedele era, se così si può dire, sinestetica: si udiva la messa, si odoravano gli incensi, ma che cosa si vedeva?
Questi tramezzi presentavano spesso aperture, cerniere, nei pressi delle quali i laici si accalcavano e assistevano, quando possibile, alla liturgia eucaristica. L’area più sacra era quindi accessibile a pochi eletti; l’occhio non godeva in questo senso di un buon panorama, tant’è che spesso i fedeli più illustri o benestanti offrivano oneri pur di poter accedere al di là, pur di poter vedere.
Un dualismo gerarchico, liturgico e spaziale, quello delle chiese medievali bolognesi, che dialoga con la dinamica assiale implicita alla spazialità della casa di Dio: l’altare maggiore è ovviamente il punto di arrivo simbolico.
Il XIII secolo è, d’altro canto, anche quello dei grandi crocifissi dipinti, diffusi soprattutto in ambito mendicante: non si può non ricordare il crocifisso di San Domenico a Bologna di Giunta Pisano, nonché le sue ragguardevoli dimensioni (3,36 x 2,85 m). Questo è oggi visibile nel lato destro del transetto, ma è lecito ritenere che l’opera in questione fosse originariamente collocata sulla sommità del tramezzo qui elevato, e che fosse fruibile dagli occhi dell’intero popolo praticante.
La croce, simbolo centrale della cristianità, in gergo crux de medio ecclesiae, assumeva dunque un «significato liminare»[2], era il «punto focale»[3] di quella dinamica assiale sopra citata: il Cristo che vi veniva dipinto poteva essere triumphans, dalla posa eretta e sicura, e quindi simbolo del trionfo della Chiesa; ma anche patiens, dolente e con il capo chino perché appena stato crocifisso, andando in questo caso a far riflettere il fedele sul peccato e sulla morte.
I tramezzi, le croci, le separazioni e gli occultamenti si spiegano ulteriormente gettando un rapido sguardo sul pensiero dell’uomo medievale: il successo materiale era cosa vana e la vita terrena aveva valore solo in quanto inizio di un viaggio la cui meta era il raggiungimento del regno dei cieli, il ricongiungimento con Dio. Da qui l’assialità verticale dello spazio sacro e il significato della croce come perno visivo di quest’ultimo.
A partire dal XV secolo, e in modo dirompente durante gli anni della Controriforma, la maggior parte dei tramezzi venne abbattuta; da lì si arriverà poi ai grandi soffitti a cielo aperto del Seicento barocco, e dunque la distruzione di ogni barriera visiva.
Sono questi gli anni di reazione al Protestantesimo, quelli dell’«imperialismo delle immagini»[4]: difatti anche a Bologna, nella Cattedrale di San Pietro, il grande tramezzo situato in navata maggiore venne abbattuto nel 1570 e ciò che oggi ci è invisibile è stato reso visibile grazie al lavoro di ricercatori e architetti, che insieme hanno ricostruito digitalmente l’assetto medievale di questo edificio. Ad oggi, un esempio di tramezzo superstite in area bolognese è quello della canonica di San Vittore, situata sul colle Barbiano, fuori dalle mura del centro cittadino: il sito rimane tutt’oggi una ricchissima testimonianza visiva che merita senza dubbio una visita.

Si pensi che proprio Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei gesuiti e grande fautore della Controriforma, a proposito dello sguardo diceva: «lasciatelo banchettare»[5].
Per lasciarlo banchettare basta esplorare le città e rintracciare in essa lo spirito, tanto nelle grandi architetture ecclesiastiche quanto nei palazzi storici, e godere della stessa meraviglia degli uomini e delle donne che ci hanno preceduto e che hanno lasciato a noi posteri la fortuna di entrare nei loro luoghi e ammirarne la grandiosa bellezza.
Fonti:
[1] Esodo, 36,35
[2] Fabio Massaccesi, I contesti architettonici delle croci trionfali bolognesi tra spazio e liturgia, in Imago Splendida. Capolavori di scultura lignea a Bologna dal Romanico al Duecento, a cura di M. Medica, Milano, 2019
[3] Ibidem
[4] Mark Cousins, Storia dello sguardo, Il Saggiatore, Milano 2018, p. 190
[5] Ibidem
Massimo Medica (a cura di), Imago Splendida. Capolavori di scultura lignea a Bologna dal Romanico al Duecento, Silvana, 2019
Mark Cousins, Storia dello sguardo, Il Saggiatore, 2018