ntervista a Michele Lapini, fotoreporter che si impegna a raccontare il mondo con la fotografia, portando una sguardo attento sui problemi sociali del nostro tempo.
Quanto può davvero raccontare oggi la fotografia? E soprattutto, quanto potere ha nel mostrare e cambiare lo sguardo e quindi percezione degli eventi?
Ce lo racconta Michele Lapini. Classe 1983, fotoreporter e fotografo freelance, dopo la laurea triennale a Firenze si trasferisce a Bologna, città in cui ha continuato gli studi e nella quale vive ancora oggi. Guidato dalla sua passione per il mondo della fotografia e da un profondo interesse per tematiche legate all’ambiente, al sociale e alla politica, il suo obiettivo lo ha portato ad annoverare nel curriculum collaborazioni con testate giornalistiche italiane e straniere; tra le molte, «La Repubblica», «Internazionale», «The Guardian», «Stern», «El País» e «Le Monde Diplomatique».

Con uno sguardo sempre nitido e vigile sulle vicende e le trasformazioni del mondo contemporaneo, Michele Lapini ha di recente documentato lotte civili e flussi migratori nell’Est Europa, così come ha fotografato l’impatto dei cambiamenti climatici e ritratto il volto della pandemia da Covid-19 in Italia.
Lo ha raggiunto per noi Stefano Laddomada.
Nell’ultimo anno il tuo lavoro ti ha portato a diventare uno dei fotogiornalisti italiani più attivi del momento. Dove inizia il tuo percorso da fotogiornalista e chi/cosa ti ha influenzato maggiormente in questa tua decisione?
La passione per la fotografia è nata in un appartamento di Firenze condiviso con Davide, Antonio e Stefania. Giravano macchine analogiche e anche io ho cominciato prendendone una e cominciando a scattare. Poi è arrivato il digitale ed ho continuato a scattare, piano piano anche per lavoro. Ho sempre frequentato l’ambiente politico e sociale delle città dove vivevo e questo mi ha sempre portato a raccontare quello che succedeva nelle strade e le persone che le attraversavano. A Bologna poi sono arrivato quando il movimento ‘dell’Onda’ straripava e insieme ad altri amici abbiamo cominciato a raccontarlo con le fotografie.
Il tuo interesse è quello di raccontare le storie di chi subisce ingiustizie, dagli sgomberi ai migranti. Cosa accomuna i tuoi lavori alla tua persona e cosa ti ha portato a trattare questi temi?
Il mio percorso di studi, insieme a quello personale, mi ha formato umanamente e di conseguenza anche professionalmente. Per me è inscindibile l’essere persona con l’essere fotografo, altrimenti diventerei una macchina. Sono le storie che danno senso alla fotografia, non il contrario.
Cosa ti ha insegnato la pandemia e come ti ci sei rapportato considerato il lavoro che fai?
Degli insegnamenti della pandemia, se ne rimarranno, ce ne accorgeremo tra un bel po’. Per adesso ci si limita a fare previsioni che molto spesso si frantumano dopo poco. ‘Andrà tutto bene’ era uno slogan che si è schiantato contro la realtà che viviamo tutti i giorni, sulla crisi economica e sociale e sul sistema che mette, anche in pandemia, prima il profitto della salute. La fotografia ha vissuto un momento particolare, in un periodo in cui noi eravamo gli occhi di tutt*, privilegiati che potevano vedere le città, gli ospedali, i luoghi di lavoro, mentre la maggior parte era chiusa in casa.
Le tue recenti pubblicazioni su «Internazionale» e «Left» ci stanno mostrando il lavoro che hai realizzato all’inizio di quest’anno in Bosnia sul campo profughi di Lipa. Nonostante la potenza comunicativa delle fotografie, c’è qualche particolare impossibile da tradurre in immagini che vorresti raccontarci?
Il lavoro in Bosnia, fatto insieme a Valerio Muscella, mi ha fatto capire da un lato che il nostro ambiente fatto di continua competitività e gelosia, viene ribaltato quando si lavora in due, in collettivo. Così come con l’esperienza di Arcipelago-19, un progetto collettivo nato proprio durante la pandemia. Sulla Bosnia le fotografie non riescono a raccontare a pieno le storie dietro le persone, in viaggio da anni che non perdono la determinazione anche nei momenti più difficili. C’è una moltitudine eterogenea dietro la parola ‘migranti’, che solo in parte la fotografia può restituire a chi osserva.
Com’è percepita la tua presenza in quel contesto da parte dei rifugiati e come può influire sul racconto il carattere del fotogiornalista?
Cerchiamo sempre di instaurare una relazione prima di fotografare. La fotografia è un esercizio di potere verticale: io fotografo, tu sei fotografato. Essere consapevoli di questo, della diversa posizione che si ha in quel momento, ti porta inevitabilmente a cercare di azzerare il dislivello e far si che la fotografia diventi un processo partecipativo. Le persone in transito, specialmente in Bosnia, vogliono che si conosca la loro situazione, perché è un paradosso dei nostri tempi che ha bisogno di una risposta politica urgente.
Se avessi la possibilità di mostrare le tue foto e di raccontare quello che hai vissuto a una persona a tua scelta, chi sceglieresti come spettatore/interlocutore?
Le farei vedere nelle scuole, nei luoghi dove le persone si formano, fuori dalla confusione dei social. Spiegando che questa non è un’emergenza, ma un effetto di politiche sulle migrazioni. E che cambiarle si può.
