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#Palinvisita la Galleria de’ Foscherari di Bologna attraverso le parole di Francesco Ribuffo.

Francesco Ribuffo dirige, insieme a Bernardo Bartoli ed Elena Ribuffo, la Galleria d’arte de’ Foscherari di Bologna, fondata negli anni Sessanta da Enzo Torricelli al quale si uniscono in seguito nella direzione Franco Bartoli e Pasquale Ribuffo. Fin dall’inizio fedele al proprio programma articolato in due filoni d’ indagine strettamente connessi: l’attenzione alla tradizione criticamente consolidata da un lato e l’interesse per la ricerca e la sperimentazione dall’altro.

Krizia Di Edoardo ha intervistato Francesco Ribuffo per Palin Magazine.

In quale contesto nasce la Galleria de’ Foscherari, ed in che modo si afferma in una scena attiva e vitale come quella degli anni Sessanta in Italia?

La Galleria de’ Foscherari nasce nei primi anni Sessanta, in un momento in cui erano già conclamate le espressioni letterarie ed artistiche prodotte dalla rivisitazione delle avanguardie. Sono anche gli anni in cui si intravedono quei fermenti sociali, soprattutto giovanili, che sarebbero poi esplosi nella seconda metà del decennio. È dunque nell’ambito dell’affermarsi delle neoavanguardie, che la de’ Foscherari pone le basi della propria identità culturale, avviando un intenso programma di mostre, articolato lungo due direttrici strettamente connesse. Da un lato la riproposta della ‘tradizione del nuovo’, cioè una letterale rivisitazione delle avanguardie storiche nella loro sostanza criticamente consolidata, dall’altro l’attenzione alla ricerca sperimentale che proprio allora manifestava particolare vivacità e tendeva ad identificarsi con la neoavanguardia. Il biennio 1967/68 risulterà particolarmente significativo: vengono allestite le mostre di otto tra i più significativi artisti pop italiani (Angeli, Festa, Fioroni, Kounellis, Pascali, Schifano e Tacchi), poi una importante esposizione di Domenico Gnoli e una grande rassegna della Pop newyorkese. Ma non ci si è limitati ad individuare nella Pop una delle esperienze più alte della neoavanguardia, l’interesse è andato oltre con la mostra dedicata all’Arte Povera curata da Germano Celant nel febbraio del 1968.

Dalla nascita della Galleria de’ Foscherari fino al 1989 i cataloghi pubblicati sono stati la sede di un dibattito teorico sull’arte, diretto da Pietro Bonfiglioli, che ha ospitato gli interventi di grandi critici d’arte, quali Barilli, Arcangeli, Celant e grandi artisti, quali Pistoletto e Guttuso. Ad oggi il dibattito critico intorno all’arte contemporanea è ancora così vivido? In che modo è cambiato?

Fu proprio la mostra ‘Arte Povera’ a indurre Pietro Bonfiglioli a spingere più a fondo sul concetto di confronto teorico sull’arte, coinvolgendo i più prestigiosi e combattivi critici italiani del tempo. Il dibattito fu ininterrotto, pur con qualche inevitabile discontinuità, tra il 1965 e l’emblematico 1989. Dopo quella data, il dibattito critico ha segnato il passo, poiché si era consolidata l’idea di quella che Francis Fukuyama aveva definito la ‘fine della storia’, ovvero il trionfo definitivo ed irreversibile del connubio democrazia-capitalismo che da lì in poi avrebbe dominato l’esistenza umana. In questo orizzonte l’arte non può sfuggire alla sua oggettivazione come merce ed il denaro diviene l’unico valore simbolico; in questo contesto l’esercizio della critica non trova più spazio ed il mercato diviene il luogo in cui si negoziano tutti i valori, economici e simbolici. Forse è presto per dirlo, ma ritengo che con la pandemia del 2020 si siano manifestati fenomeni che possano suggerire che la fase storica inaugurata con il 1989, sia giunta alla conclusione e che ci avviamo ormai verso la fine della fine della storia. Se questo porterà ad una rinascita della critica e dell’arte è presto per dirlo, ma sicuramente molti interrogativi sono gettati sul tavolo.

Negli anni Sessanta abbiamo figure di galleristi che collaborano strettamente con gli artisti, come Iris Clert in Francia o, in ambito italiano, l’esempio di Fabio Sargentini. Attualmente, invece, come si pone la figura del gallerista accanto all’artista? È importante conoscerlo personalmente?

Fino a quando la società è mossa da una radicale richiesta di rinnovamento, artisti, galleristi e pubblico si possono incontrare in un terreno comune, rappresentato proprio da questa comune istanza. Con il tramonto di tale prospettiva e con l’affermarsi dell’idea della fine della storia e del neo liberismo economico, questo terreno comune non esiste più. I rapporti umani sono regolati dal modello del mercato. L’altro diviene dunque il concorrente rispetto al quale chiunque deve cercare di prevalere.

Come sono cambiate le relazioni con il pubblico?

Il contesto culturale degli anni Sessanta era caratterizzato, come abbiamo detto, da forze sociali che chiedevano un radicale rinnovamento della società ed in quel periodo il pubblico dell’arte era certamente formato dalla borghesia interessata all’acquisto di opere, ma anche da un ceto intellettuale che si sentiva coinvolto in quelle istanze di rinnovamento sociale che si esprimevano con forza nel campo artistico. Con la restaurazione, cominciata con il Sessantotto e consolidatasi con gli anni Ottanta, l’istanza avanguardista dell’unione arte-vita si è rovesciata in identità dell’arte con il mondo, un mondo trasformato in infinito arsenale di merci. L’oggetto artistico non è più merce in quanto arte, ma al contrario diviene arte in quanto merce. E tutte le merci entrano nel campo dell’estetica. Il pubblico diventa di massa mentre il ceto intellettuale perde il suo ruolo sociale e si disperde.

La Galleria de’ Foscherari come ha reagito ed affrontato la situazione COVID-19?

Ricevo questa domanda nel momento in cui Bologna torna zona rossa, come un anno fa. La stagione è identica, l’aria è tiepida, il sole splendente, la città, vuota e silenziosa, è bella. Rispetto ad un anno fa tanti sono stremati economicamente e psicologicamente, le gallerie i musei, i cinema ed i teatri sono chiusi. Per ora si naviga a vista, cercando di sopravvivere, ma consapevoli che l’approdo sarà in un mondo differente e profondamente rinnovato. È ancora troppo presto per poter comprendere la portata dei cambiamenti che sono in atto, la pandemia deve ancora toccare il picco, ma già certi fenomeni sono rilevabili. È la fine della fine della storia, l’equilibrio è spezzato, un mondo sta morendo, un mondo nuovo sta sorgendo. Intendo qui il mondo come comunità, come orizzonte di senso entro in cui l’umanità vive e si organizza. Pensiamo ad esempio al mondo nel quale abbiamo vissuto gli ultimi decenni, dove tutto succedeva sulla superficie, sulla pelle del mondo divenuto immagine. Non è forse l’invisibile che oggi a dare forma alla nostra vita? Un mondo che sorge è destinato sempre a manifestarsi prima sotto forma artistica, non perché gli artisti siano avanti, ma per il motivo opposto, per il carattere originario dell’opera d’arte. Io ho sempre creduto che interrogare il destino sia il compito dell’arte di ogni tempo. Ritengo dunque compito della Galleria e più in generale di coloro che operano nel campo artistico, possa essere quello di mettersi in ascolto, di accogliere l’altro, inteso non come ente con cui porsi in competizione, ma come parte di se stessi, con cui scoprire ed inventare nuove possibili relazioni.

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