Attraverso lo sguardo del fotografo realista Ken Domon, attraverseremo gli sguardi assordanti dei bambini dimenticati in Giappone. La documentazione non è passiva, il fotografo si immedesima nel tempo e nello spazio che cattura. Solo gli sguardi degli innocenti forse possono riportare in vita le nostre coscienze soggiogate dal mondo mediatico.
La fotografia appartiene a quella classe di oggetti fatti di strati sottili di cui non è possibile separare i due foglietti senza distruggerli: il vetro e il paesaggio e perché no: il Bene e il Male, il desiderio e il suo oggetto: tutte dualità che è possibile concepire ma non cogliere ( Io non sapevo ancora che da quella caparbietà del referente di essere sempre lì, sarebbe venuta fuori l’essenza…).
Roland Barthes, La camera chiara
La fotografia porta da sempre in sé una serie controversa di implicazioni e l’unica verità sulla quale non si può discutere è che sia un contenitore di storia e di vissuto. Essa rappresenta e presenta allo stesso tempo un incrocio di sguardi: quello del fotografo, della macchina fotografica e del soggetto rappresentato; ma c’è un quarto sguardo che chiude il cerchio, ed è quello dello spettatore sottoposto a una tempesta emotiva, posto di fronte alla storia, di fronte a chi da vittima o da carnefice ne ha scritto la trama. Si tratta di uno scambio, un connubio di intenti che si intersecano tra loro nella riproduzione di un istante limitato e infinito allo stesso tempo, cristallizzato ma vivo attraverso gli animi che lo costituiscono.
Tra i fotografi del Novecento, chi dello sguardo ha fatto un elemento della sua estetica è sicuramente Ken Domon (1909 – 1990) considerato uno dei principali esponenti del cosiddetto realismo giapponese. Tramite la sua fotografia, infatti, si attraversano gli sguardi di una cultura da sempre considerata tra le più distanti dall’Occidente, sguardi che evocano una universalità incontaminata di intenti, sofferenze, gioie.
Al termine degli anni Quaranta Ken Domon realizza reportage fotografici a carattere sociale, due dei quali in particolare passeranno alla storia, ovvero la documentazione dello scoppio della bomba atomica e quella dei villaggi a sud del Giappone, filtrati attraverso gli occhi dei bambini che Domon inizia a fotografare costantemente dal 1953, creando delle sequenze nelle quali cattura la speranza di una nuova rinascita dopo la guerra. Il Giappone tenta di rialzarsi e i bambini immortalati tra le strade di Kyoto rappresentano un atteggiamento ottimistico verso un futuro nuovo e diverso; sono bambini felici e lo si nota dallo sguardo dei loro volti, dai movimenti del corpo mentre giocano: tutto fa pensare a un senso di rinascita misto a spensieratezza. La fotografia, in questo contesto, ha dunque il compito di immortalare la Storia attraverso i corpi e gli sguardi di quei bambini, creature che per natura simboleggiano ed emanano inconsapevolezza.

Nel 1959 però qualcosa muta: cambia lo sguardo del fotografo, così come il profilo della città, cambiano gli occhi dei bambini immortalati e con essi la Storia. Stavolta lo sfondo è la regione di Chikuhô, fondamentale per le risorse minerarie, che vive una rapida decadenza per via del progresso tecnologico nel quale al carbone viene sostituito il petrolio. Le immagini trasudano povertà, tutto indica un lento declino storico e sociale, in una sezione di fotografie che potremmo definire ‘dei dimenticati’. È proprio questa incoscienza della Storia e dell’uomo che ci mette di fronte a una realtà ben più dura da sopportare: attraverso gli sguardi di quei bambini immortalati si è costretti a fare i conti proprio con la Storia. Sono i dimenticati che trafiggono la carne con i loro sguardi vivi, ricolmi di dolore, a dirci che non si può dimenticare ciò che esiste, che non si può nascondere la polvere sotto il tappeto per sempre.
La Storia torna a chiedere il conto, le vite spezzate e abbandonate ci si presenteranno di fronte a testa alta e con lo sguardo fermo, pronte a riscattarlo. Ken Domon li ritrae con il suo obiettivo uno dopo l’altro, cerca di immedesimarsi nel tempo e nello spazio del vissuto che cattura, tenta di creare una connessione pura, senza filtri, perché tra lui e il soggetto non è interposto nulla, la macchina fotografica è solo un mezzo. Lo stesso fotografo sosteneva che «lo scatto nasce dall’uomo, dal pensiero»[1] ed è proprio questa immediatezza dello sguardo, questa forma empatica di connessione che pietrifica di fronte ai volti di quei bambini che incuranti richiedono un confronto diretto con l’essere umano.

Tra i molti ritratti nell’arte fotografica, due sguardi differenti colpiscono più di tutti.
Il primo nella foto della bambina che tiene l’indice in bocca, uno sguardo inespresso, rivolto verso il nulla. Anche in questo scatto di Domon traspare dolore, c’è semplicità mista a immediatezza, è uno sguardo che tenta di penetrare, forse anche di chiedere aiuto. Due occhi vuoti che al contempo racchiudono dentro di sé tutto il dramma di una regione, inglobando al loro interno tutte le grida inespresse dalla voce. Uno sguardo assordante il cui urlo riecheggia più di quello di mille persone, ma anche uno sguardo che è visione, un invito alla consapevolezza delle atrocità compiute nel corso del tempo.

Esiste poi un secondo sguardo, diverso ma di uguale intensità: quello nella foto di Steve McCurry che ritrae un bambino con sua madre a Bombay mentre chiede l’elemosina tra le macchine in coda. Una foto scattata dall’interno della macchina di McCurry mentre fuori piove, nata istintivamente, col medesimo slancio che utilizzava Domon. McCurry coglie quell’attimo di vita quotidiana attraverso il filtro del vetro della sua auto, lo sguardo della donna è tagliato a metà dal margine del finestrino ed è uno sguardo rotto, spezzato a metà. La sua mano sul vetro lascia l’ impronta tangibile della vita e della sofferenza che si porta dietro, che è soprattutto una mano che chiede aiuto. Lo sguardo del fotografo non è passivo, perché in questo scatto ci sono due mondi che si incontrano e si scontrano: quello sicuro e fresco all’interno della macchina in cui si trova l’artista, e quello in bilico tra la vita e la sopravvivenza di una donna che cerca di portare avanti la sua vita nel modo più dignitoso possibile. La pioggia che riga il vetro, e per trasposizione anche i volti della donna e del bimbo, rappresenta forse tutte quelle lacrime che dignitosamente la madre non ha versato. La foto è struggente e documenta una realtà con l’ingenuità di chi è colpito da un gesto improvviso, che genera automaticamente un valore estetico d’impatto.
Quando si guardano le foto di Domon, così come quelle di McCurry, si entra direttamente in contatto con le culture e le storie di persone più o meno lontane da noi, rimanendo investiti da un senso di profonda spiritualità e verità. Le luci, i colori, le inquadrature contribuiscono a creare il quadro perfetto di una storia che contiene già dentro di sé tutta la sofferenza e la bellezza del mondo. Le foto shock dei conflitti, a causa del bombardamento mediatico, ci hanno reso in parte immuni a comprenderne la crudeltà e la sofferenza. Vengono però in nostro soccorso gli sguardi catturati da un fotografo che non documenta passivamente quello che si trova davanti, bensì gli sguardi di quelle persone che penetrano nella nostra mente.
E contro chi sostiene che opere fotografiche documentarie non sono considerabili arte: «Una foto è ‘opera’ quando l’autore non si limita, tramite lo strumento meccanico, a riprodurre la realtà, ma riesce a carpire dal dato reale ciò che corrisponde al suo personale modo di vederlo, sentirlo e interpretarlo»[2].
Fonti:
[1] https://www.doppiozero.com/materiali/lo-sguardo-e-il-tempo
[2] F. Minio, Quando la fotografia è considerata arte, in «Artribune», 20 maggio 2019
R. Barthes, La camera chiara, Piccola Biblioteca Einaudi, 2003.
F. Minio, Quando la fotografia è considerata arte, in «Artribune», 20 maggio 2019.
W. Guadagnini, Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo, Zanichelli, 2010.
https://www.raicultura.it/arte/articoli/2019/12/Domon-Ken-42638136-38af-444e-96de-aa2906489c89.html
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