La cosa che accomuna la grande moltitudine di specie, generi, famiglie che si sono sviluppate sul nostro pianeta è il continuo ciclo vitale limitato tra nascita, crescita, invecchiamento e morte, in correlazione biochimica con ciò che avviene a livello microscopico in ogni organismo nel DNA. In sostanza, l’immortalità non è roba da umani.
Con ‘vita’, intendiamo qualcosa capace di sostentarsi, crescere, e, infine, perire.
Aristotele
L’immortalità esiste, ma non per la specie umana.
Un’affermazione che stupirà i più, ma che, in realtà, ha manifestazioni tutt’attorno a noi: alberi antichissimi, quali i Ginkgo biloba, sono virtualmente immortali. Identici a come erano ai tempi in cui i dinosauri calcavano la terra, nel Triassico. Ma anche nel mondo animale possiamo annoverare esempi: le Hydrae, cnidari – in sostanza, meduse – sono virtualmente immortali, dal momento che lo stesso individuo è capace di shiftare il proprio metabolismo da liberamente natante a sessile; allo stesso modo la Arctica islandica, una vongola dell’Atlantico, è l’organismo animale più antico che si conosca: 500 anni di gioia e alcun segno di invecchiamento cellulare o, perfino, a livello molecolare. Di DNA, dunque. Inoltre, il mito della lunghissima vita delle tartarughe è abbondantemente suffragato dai fatti: basti pensare alle tartarughe di Darwin delle Galapagòs. Spugne, batteri, orchidee, pangolini, tigri, muffe, parameci, panda, orsi bruni, spirochete, dickinsonie – tutti gli esseri viventi sulla Terra, immortali o meno – condividono la ratio alla base della vita su questo pianeta: il Dogma della biologia. Quindi, sia il DNA, sia lo storage di informazioni, organizzato in geni, copiati in RNA (acido ribonucleico, molecola simile al DNA ma non a doppia elica), secondo tale codifica, vengono tradotti in forma proteica. Tale apparentemente semplice schema si presta, però, a molteplici varianti: un Ginkgo biloba rimarrà uguale a se stesso finché un patogeno vegetale non lo attaccherà, un’effimera vive poche ore.

Perché gli umani, dunque, invecchiano? La nostra vita è limitata, teoricamente, a 125 anni: età raggiunta dalla signora Jeanne Calment, francese[1], che, pur fumando e mangiando cioccolata in abbondanza, è rimasta vigile, cosciente e relativamente in buona salute fino alla fine.
La correlazione biochimica, genetica fra l’età umana e ciò che accade, realmente, nel nostro corpo, è tutto meno che immediata. E, anzi, tale scoperta è anche piuttosto recente: risale agli anni ’70, quando vennero scoperti i telomeri (dal greco télos, che significa termine, limite). Essi sono le porzioni terminali dei cromosomi, non solo degli umani, ma di tutti gli esseri viventi. La scoperta e caratterizzazione di tale aggregato di DNA e proteine si deve a Elizabeth Blackburn (qui una sua recente intervista), Carol Greider e Jack Szostak che, per il loro lavoro, negli anni ’70, ottennero il Nobel nel 2009. Fondamentale fu poi il contributo indipendente di Barbara McClintock, famosa biologa che, con le sue scoperte, sostanzialmente rivoluzionò la genetica per come la conosciamo ora.
Dunque, un limite, un confine invalicabile, che è intrinseco nella materia vivente, è ciò di cui i telomeri sono testimoni. Il DNA, l’acido desossiribonucleico, ossia il contenitore di informazioni del nostro organismo umano, srotolato, raggiungerebbe la lunghezza di circa un metro. Vien da sé, dunque, che esso vada, in qualche modo, organizzato, compattato, riordinato: il DNA, come un filo, viene raccolto da dei veri e propri rocchetti, gli istoni, attorno ai quali si attorciglia. Gli istoni, a loro volta, fungono da ulteriore filo per ulteriori rocchetti, di dimensioni sempre maggiori ed efficienza di impacchettamento più alta – un’entità, chiamata, genericamente, cromatina. Il grado finale, quello sovramolecolare, ben visibile col microscopio ottico – a soli 100 ingrandimenti – è quello dei cromosomi, chiamati così perché ‘corpi colorati’ (dal greco chroma e soma), termine coniato dallo scienziato Heinrich Wilhelm Gottfried von Waldeyer Hartz, successivamente alle sue osservazioni di cellule in divisione colorate con determinate tinte.

Dunque, i cromosomi. I cromosomi umani sono 46, 46 corpuscoli in cui è iniquamente diviso il patrimonio genetico complessivo di un organismo. 46 corpuscoli che devono essere, a loro volta, duplicati, ogni volta che l’intera cellula si duplica. La scoperta rivoluzionaria di Blackburn & co., negli anni ’70, fu riguardo tali oggetti[2].
La vita si accorcia e si autolimita nell’atto di crescere, perché, a ogni replicazione, la regione dei telomeri tende ad accorciarsi: il meccanismo di replicazione del DNA – struttura ultima alla base dei cromosomi – è intrinsecamente impreciso e, a ogni singola replicazione delle migliaia e migliaia che avvengono ogni secondo nel nostro corpo, causa la perdita di informazioni. La natura stessa, però, per permettere la sua sopravvivenza, ha fatto sì che la regione dei telomeri non fosse composta da geni – i pacchetti informativi che caratterizzano ciascun organismo – ma da semplici sequenze ripetute:
TTAGGG
Esse, a loro volta, al termine di ciascun telomero, sono in grado di formare un uncino, chiamato T-loop, che fisicamente chiude, termina, limita, il cromosoma stesso. Un poetico nome fu dato alla proteina che pattuglia tale deserto: la shelterina (dall’inglese, to shelter: mettere al sicuro).
Nonostante il quantitativo di sequenze ripetute sia impressionante, dopo un numero infinitamente alto di replicazioni, l’erosione dovuta alla reazione di polimerizzazione stessa del DNA giunge ai geni. Immagino l’angoscia da cui fu preso lo scopritore, uno scienziato dell’URSS, Alexey Olovnikov [3], quando realizzò che, come mammiferi, siamo creati e programmati per crescere, raggiungere un apice, e poi, lentamente, eroderci dal di dentro e, infine, morire. Siamo vulnerabili in una natura enorme: essa non ha visto alcuna utilità nel renderci immortali, ma solo nel farci durare – quanto basta – per far prosperare la specie alla quale apparteniamo. La senescenza è contemplata solo fino alla pubblica utilità, per evitare l’estinzione e tramandare qualcosa di utile ai posteri.
La devastante scoperta della natura dei telomeri, però, non ha portato solamente ulteriore sconforto a chi sperava nella realizzazione del transumanesimo, ma anche interessanti avanzamenti nella ricerca biomedica. Tale porzione di DNA, infatti, nelle cellule tumorali – così come in quelle staminali – è mantenuta di normale lunghezza da un enzima (una macchina molecolare proteica, che agisce come un motore) chiamato, banalmente, telomerasi. La telomerasi, definita come una DNA polimerasi RNA dipendente, utilizza un RNA come stampo per produrre del DNA, esattamente come i virus di HIV, epatite e il Sars-cov-2 replicano il proprio patrimonio genetico. La telomerasi, essendo attiva nelle cellule tumorali, permette la loro infinita replicazione e questo aspetto è sia la causa della mortalità dei tumori, sia la caratteristica che le rende facilmente maneggiabili in laboratorio.
La vita, dunque, si autolimita: la nostra vita, in quanto specie a rapida moltiplicazione, è giusto che sia incapace di durata eterna.
Fonti:
1 Weon, B.M.; Je, J.H. Theoretical estimation of maximum human lifespan. Biogerontology 2009, 10, 65–71, doi:10.1007/s10522-008-9156-4.
2 Moyzis, R.K.; Buckingham, J.M.; Cram, L.S.; Dani, M.; Deaven, L.L.; Jones, M.D.; Meyne, J.; Ratliff, R.L.; Wu, J.R. A highly conserved repetitive DNA sequence, (TTAGGG)(n), present at the telomeres of human chromosomes. Proc. Natl. Acad. Sci. U. S. A. 1988, 85, 6622–6626, doi:10.1073/pnas.85.18.6622.
3 Olovnikov, A.M. A theory of marginotomy. The incomplete copying of template margin in enzymic synthesis of polynucleotides and biological significance
Mi avete fatto riflettere, grazie per quello che fate.
Hi, Eric here
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All the best Eric