Igiaba Scego, attraverso la sua ultima opera, La linea del colore (Bompiani 2020), conferma la necessità di ripensare delle categorie che oggigiorno suonano sempre più come solchi, o linee divisorie, tra Noi e l’Altro.
La riscrittura del nostro passato, soprattutto quello del passato recente, fa parte di un’esigenza dettata dal riemergere di storie e microstorie disseminate nella memoria collettiva. Ne consegue che molte voci di nuova generazione abbiano ‘preso la parola’, secondo nuove e inedite possibilità di esprimersi, sulle tracce di un famoso saggio della filosofa Gayatri Spivak, Can the subaltern speak? (1988); e sembrano rievocare un passato a noi sconosciuto, diverso, quasi ‘sommerso’ della nostra coscienza storica:
Sono cosa? Sono chi? Sono nera e italiana. Ma sono anche somala e nera. Allora sona Afro italiana? Italo africana? Seconda generazione? Incerta generazione? Meel kale? Un fastidio? Negra saracena? Sporca negra? Non è politicamente corretto chiamarla così, mormora qualcuno dalla regia. Allora come mi chiameresti tu? Ok, ho capito, tu diresti di colore. Politicamente corretto, dici. Io lo trovo umanamente insignificante. Quale colore di grazia? Nero? O piuttosto marroncino? Cannella o cioccolato? Caffè? Orzo in tazza piccola? Sono un crocevia, mi sa. Un ponte, un equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla fine, sono solo la mia storia.[1]
La scrittrice Igiaba Scego, con la sua opera, rimanda alla percezione di un continuo frazionamento di sé stessa davanti a interlocutori italiani che misurano ogni micro-segmento di adesione allo standard italico, o a quello di provenienza somala, che è emblematica del proprio consapevole spacco di coscienza, squarcio verticale, che divide la soggettività dell’individuo, rilevando come pure esistono, e coesistono, elementi plurimi che coabitano l’unicità del soggetto: risorse, immaginari e linguaggi accompagnano il divenire di identità mai statiche, le quali, come nella metafora narrativa di Scego, corrispondono alla presa di consapevolezza del «sono solo la mia storia».

Il titolo del libro è, come la stessa Scego definisce, «un omaggio (e citazione diretta) a W.E.B Du Bois. La linea del colore è quella che ancora divide, ma per Lafanu Brown assume anche un altro significato, è la linea della sua arte, quella della sua emancipazione». È un viaggio verso la propria storia quello che Scego descrive: una narrazione che si muove a ritroso verso le pieghe del proprio passato, delle radici della propria coscienza storica.
Nella sua narrativa, la Scego riflette spesso sul meticciato, sull’ ibridismo, il cui status, misto con i ‘confini confusi’, è una condizione che si iscrive nella medesima identificazione corporea di fronte allo specchio. La sua opera, benché sia inizialmente inserita nella letteratura della migrazione, e soprattutto nelle scritture della cosiddetta seconda generazione degli scrittori migranti, dovrebbe invece essere esaminata alla luce della letteratura postcoloniale dove la stessa esperienza del migrante, con le possibilità narrative offerte dall’avere un ‘punto dal basso’ (Gilroy) diventano identificative di dinamiche sociali folkloricamente italiane, le quali sono indice di ulteriori potenzialità narrative delle ‘nuove voci’:
I nobili romani erano pieni di debiti, ma non rinunciavano ai loro salamelecchi regali e a quelle orrende conversazioni sul niente. Betsabea la portava da quei nobilastri perché si esercitasse sui volti. «Sono una ben strana umanità,» le diceva complice. «Hanno facce da museo. Ti potrai esercitare molto facendo il tratto a questo circo delle meraviglie». E così per mesi, che poi erano diventati anni, Lafanu Brown era stata convocata in quei mastodontici palazzi, che alla prima occasione erano stati venduti ai nuovi padroni di Roma, i piemontesi, per farci stazione e piazze di passaggio. Ma se i nobili lasciano a desiderare – puzzavano di porte chiuse e paure ancestrali –, le loro ville erano invece un autentico splendore.[2]
Notiamo come lo sguardo antropologico sia ribaltato definitivamente. Il soggetto subalterno assume la stessa possibilità di parlare, to speak (Spivak), e di giudicare le pratiche del mondo circostante. Non in modo ‘selvaggio’ e disarticolato, ma con una critica che è emblematica di una rovinosa caduta delle antiche famiglie nobiliari, in virtù dello stesso cambiamento dei tempi.
La storia delle deportazioni e la storia dello squarcio verticale della coscienza del ‘Negro’ appartengono a una configurazione storica in cui lo spazio socio-culturale cosmopolita, ibrido e decolonizzato, come quello di Scego, può essere pensato dalle diverse comunità nere come background culturale comune su cui ricreare identità culturali e politiche alternative: è ciò che Gilroy ha indicato nel concetto di «Atlantico nero»[3], ossia lo sfondo su cui si è costruita la black diaspora.
Baby Sue mi ha dato una ciocca dei suoi capelli. Mi ha detto: «Lanciala nell’acqua. Lì in quell’oceano tetro come la notte sono state gettate mia sorella e mia madre. Non so come sono sopravvissuta a vederle soffrire sotto il peso di quegli uomini orribili. Non è umano vedere la propria madre o la propria sorella umiliata in quel modo. Non le ho viste morire. I loro corpi sono stati riempiti dall’alito di troppi uomini, e dopo che si sono divertiti abbastanza le hanno gettate agli squali. Sono morte sotto il peso di quelle bestie, ma io so che sono lì. In quel mare hanno creato un’altra vita. Ogni tanto le vedo in sogno».
La memoria della schiavitù, del colonialismo, della diaspora, del meticciato, attivamente preservate quali vive risorse intellettuali nella cultura narrativa e sociale, suggeriscono un modo di rispondere alla «dialettica dello spaesamento» (Glissant) mirando a scrivere storie che non partano da un punto di vista eurocentrico, per narrare come le culture dissidenti della modernità dell’Atlantico nero abbiano sviluppato e cambiato questo mondo frammentato, contribuendo con enormi risorse alla salute morale del nostro pianeta e delle sue aspirazioni democratiche[4].

Senza pretendere di dare una risposta a queste domande, le quali richiederebbero molte più trattazioni di quelle realizzabili in questa sede, limitiamoci a notare come la presa di coscienza di autori migranti e provenienti dalle ex-colonie abbia iniziato a mettere in questione il canone della letteratura italiana e l’identità che su di esso si fonda, non senza provocare reazioni difensive in un Paese nel quale, grazie all’opera (recente però) di storici e romanzieri[5], il colonialismo comincia a non essere più considerato marginale.
Un modo per evadere da quella «violenza epistemica» (Spivak) sembrerebbe quella di ricacciare ogni linea divisoria, ogni muro o Vetro che fornisce e incoraggia lo specchio dell’abbruttimento e della negazione sull’Altro. Le nuove possibilità offerte dalle esperienze inedite di congiunzione culturale e di meticciato sembrano fornire altrettante soluzioni per poter osservare, da una realtà nuova, una micro porzione del reale non mediata dallo sguardo bianco, non filtrata dal vetro della nostra cultura di europei.
[1] Scego, La mia casa è dove sono, Loescher, Torino 2012, pp. 33 s.[2] I. Scego, La linea del colore, Bompiani, Milano 2020, p. 25.
[3] P. Gilroy, The Black Atlantic: l’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Milano 2019
[4] op. cit. p.47.
[5] Cfr., tra gli altri, D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche d’occupazione dell’Italia fascista in Europa 1940-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003; V. Perilli, Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano, in «Controstorie», n. 1, 2008, http://www.controstorie.org/content/view/8/32/; N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002; C. Raimo, Contro l’identità italiana, Einaudi, Torino 2019.