Moderni e raffinati software cercano sempre più di soppiantare l’uomo nella sua capacità di traduzione e interpretazione, cercando al tempo stesso di annullare le distanze dettate dal multilinguismo. L’uomo spesso dimentica, però, di essere una macchina unica e insostituibile.
Vladimir Nabokov, padre dell’arcinoto Lolita nonché abile poliglotta, scrive in russo per trent’anni prima di emigrare verso gli Stati Uniti, dove raggiunge la fama scrivendo in inglese. E scrive in inglese persino quando decide di buttare nero su bianco i suoi ricordi, che sarebbero poi diventati l’autobiografia Conclusive evidence (in italiano il titolo è Parla, ricordo). Quando un editore suo compatriota gliene chiede una traduzione in russo Nabokov si mette all’opera ma, con immensa sorpresa, insieme ai termini russi, in quel processo di auto-traduzione – e auto-analisi – riaffiorano anche altri ricordi, solo apparentemente sopiti.
Risultato: letteralmente un altro libro, cosa che costringe l’autore ad integrare la versione inglese riscrivendo le sue memorie per la terza volta.
Quello che può avere la parvenza di un aneddoto creato per mitizzare un’opera e un autore è in realtà una vicenda letteraria, umana e linguistica che ci rivela forse una delle funzioni meno note della nostra abilità verbale: le lingue registrano i ricordi, che riemergono con il suono delle parole anche quando sembrano essere dimenticati. Da ciò, le scelte che operiamo quando parliamo dicono più di quanto pensiamo.
Uno dei tratti fondamentali che ci contraddistinguono come animali umani è infatti il logos, ossia il linguaggio verbale; così almeno scriveva Aristotele nel V secolo a.C.
Il linguaggio verbale è il prodotto ultimo di una serie di attività cognitive che si attuano a livello cerebrale nell’essere umano sin da piccolo, facendo da anticamera ad azioni che si snocciolano nella quotidianità, dalla chiacchierata in fila alle poste alla richiesta di informazioni da un passante. Focalizziamoci però sul fatto che in entrambi i casi i nostri interlocutori possano non essere nostri connazionali ed è perciò possibile che non mastichino la nostra stessa lingua: come si può comunicare e quindi interagire con loro?
Aristotele, nella sua epoca, non poteva ancora neanche lontanamente immaginare che, un paio di millenni dopo, a possedere il logos sarebbero state anche le macchine, ma oggi mentiremmo tutti se negassimo di non esserci mai rivolti all’ onnisciente dio Google per cercare la traduzione di un termine. Questo capita perché, ad oggi, i programmi di traduzione funzionano sempre meglio, creando l’abbaglio che sia inutile imparare una lingua straniera. Ci siamo mai chiesti perché?
Sorvolando sulla velocità e l’immediatezza alle quali ci ha abituati la contemporaneità, la risposta al quesito è da rintracciare in primis nella corsa di colossi della tecnologia come Microsoft, Apple e Google alla realizzazione di uno dei sogni atavici dell’uomo: capirsi senza fatica alcuna creando l’interprete perfetto, cioè un software che, grazie all’intelligenza artificiale, risponda ai bisogni linguisticamente più intimi dell’homo sapiens sapiens. Ciò facendo, si andrebbero sicuramente a porre le basi per un mondo prebabelico, senza barriere linguistiche, a tutto vantaggio di una comunicazione globale figlia di una traduzione automatica (utile in apparenza a categorie come viaggiatori, studenti e dirigenti d’azienda, che risparmierebbero in vocabolari, corsi di lingua o costi di traduzioni specialistiche), ma che, per esempio, comporterebbe al tempo stesso l’affossamento della traduzione di opere letterarie in lingua straniera, l’appiattimento della diversità linguistica e la perdita di lingue minoritarie – già indebolite dalle lingue franche come l’inglese – con relativa eredità culturale di cui si fanno veicolo. Senza contare che, per molti, conoscere più lingue equivale ad una posizione lavorativa e ad una conseguente remunerazione economica, traduttori ed interpreti su tutti.
A oggi esistono già affinate app e svariati software per il riconoscimento e la sintesi vocale capaci di tradurre brevi testi in tempo reale, e si è alquanto certi che il futuro in questo campo abbia in serbo altre novità. Nonostante tutto, se da un lato gli esperti di software promettono di estirpare il multilinguismo neanche fosse una delle piaghe d’Egitto, dall’altra pare che nel 2020 l’uomo non sia ancora pronto ad un simile cambiamento epocale, né abbia voglia di esserlo; la tendenza, in questo senso, dice infatti l’esatto contrario.

Nonostante la globalizzazione, la lingua resta specchio di un popolo e della sua eredità culturale e lo hanno capito bene i moltissimi in tutto il mondo che durante il lockdown dello scorso marzo, quando la routine mondiale ha subìto un brusco arresto, hanno colto l’occasione di trovare un passatempo intelligente nell’imparare una nuova lingua. A dircelo è Babbel, una delle app per l’apprendimento linguistico più vendute a livello globale, che in quel mese ha registrato un aumento vertiginoso delle iscrizioni, superando di più del 200% quelle dello stesso mese dell’anno precedente. Ciò che colpisce e dà speranza è il fatto che, mentre uno su otto lo ha fatto per lavoro, per uno su tre la motivazione sia stata ‘l’interesse per la lingua e la cultura’.
Lo scrittore Roger Willemsen non erroneamente sosteneva che una delle ultime cose romantiche di questo mondo è il multilinguismo. Per afferrare appieno questa visione, prendiamo come esempi due termini complessi e mai perfettamente trasportabili in altre lingue: Heimat e saudade. Il primo, nella lingua tedesca, viene spesso erroneamente tradotto con ‘patria’ come insieme di radici e valori di un popolo, escludendo vari altri significati del ventaglio semantico; il secondo, di origine lusitana, racchiude in sé un significato complesso e profondo associato ad una forma di nostalgica malinconia e alla solitudine. In entrambi i casi, per rispetto di tutto ciò che racchiudono, tradurli selvaggiamente sarebbe un crimine.
Ma al di là di visioni ‘romanticheggianti’ o di fuorvianti traduzioni take-away, è assodato che, anche dal più terreno punto di vista della psicolinguistica e delle scienze cognitive, il plurilinguismo abbia effetti molteplici. A cominciare dall’essere un’ottima tecnica socioculturale ed uno strumento estremamente utile nel comprendere la mentalità e l’identità di un popolo, di cui la lingua costituisce parte essenziale, fino ad avvicinare le persone, rendendole quindi più abili nell’ immedesimarsi negli altri, oltre ad essere un beneficio per il rallentamento di almeno cinque anni nell’invecchiamento cerebrale, compensando parzialmente il regresso cognitivo dovuto all’età. Senza dimenticare che il linguaggio è riflesso della diversità delle esperienze e delle emozioni tipicamente umane: una volta standardizzato e ridotto nelle sue funzioni più intime, perderebbe inevitabilmente valore.
Il semiologo Umberto Eco, dall’alto della sua esperienza di linguista e traduttore, qualche decennio fa in un suo saggio ci ha insegnato che la traduzione è una questione di negoziazione, qualcosa che ci impedisce di fermarci all’apparenza e ci impone di andare nettamente al di là di un semplice paragone con un’equazione matematica.
Dietro ad una traduzione potrebbe esserci un mondo da svelare e da riportare a galla. Nabokov ne sapeva qualcosa.
S.Kara e S. Schmitt (Die Zeit), Il valore delle lingue; Tobias Haberl (Süddeutsche Zeitung Magazin) Un’esperienza romantica, in Internazionale n. 1368 anno 27, 24 luglio 2020