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The Lobster (2015) di Yorgos Lanthimos racconta la storia di David e della sua ricerca dell’amore in un mondo in cui la coppia di individui è l’elemento sociale minimo e obbligatorio. Si tratta davvero solo di un futuro distopico? Quali sono le modalità di formazione di un legame d’amore nel film, e quanto differiscono dalla nostra realtà?

Le monde du pervers est un monde sans autrui,
donc un monde sans possibles.
G. Deleuze

L’attuale produzione registica di Yorgos Lanthimos conta sette film – sette, il numero dei drammi superstiti di due dei tre più grandi tragediografi greci, Eschilo e Sofocle.

Il regista ateniese ha reso esplicitamente tributo al teatro greco dell’antichità con The Killing of a Sacred Deer (tr. it. Il sacrificio del cervo sacro, 2017), il cui titolo si richiama alla sanguinosa saga degli Atridi, una delle numerose ‘saghe familiari’ della mitologia greca [1].

Due anni prima nelle sale era apparso The Lobster (2015), ed è ancora al mito antico che Lanthimos guarda. Siamo in un futuro distopico; i single, reietti della Città, sono obbligati a trascorrere un soggiorno di quarantacinque giorni nell’Hotel con l’unico obiettivo di trovare un compagno o una compagna con cui fare coppia. Il fallimento comporta la trasformazione in un animale a loro scelta.

Lo spettatore accompagna all’Hotel David (Colin Farrell), reduce da un matrimonio fallito, che sceglie per il suo eventuale futuro zoomorfo un’aragosta, a lobster, appunto. Viviamo con lui i primi giorni nella nuova comunità, assillati dalla forsennata propaganda che inneggia alla vita di coppia come alla massima realizzazione di vita. Ben presto si chiariscono le condizioni necessarie alla formazione di una coppia: bisogna condividere un difetto. L’essere blesi, zoppi, malvagi o ipovedenti diventa l’elemento di coesione per due individui, su cui si basa il vincolo di ‘amore’. Tutti elementi degni di una commedia di Aristofane: distopia, straniamento, ridicoli individui con menomazioni fisiche, sesso, idealità derise. La retorica dell’amore che completa – moderna evoluzione del frainteso mito platonico degli esseri primordiali – è completamente stravolta: l’amore non significa conoscere l’altro per differenza, ma assimilarlo a sé per identità. Nella visione distopica del film, l’amore depone il proprio valore conoscitivo dell’alterità per divenire uno specchio in cui ciò che amiamo è in realtà l’esatta immagine di noi stessi. Ed è proprio da qui che la divertente commedia assume le tinte fosche della tragedia.

L’amore per se stessi e, in quanto tale, destinato al fallimento è l’oggetto di un mito raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio. Nella mitologia greca Narciso è una figura dai caratteri non definiti: è Ovidio ad avergli affidato la personalità dell’adolescente che, specchiandosi nella fonte, si innamora di sé stesso. Un amore che Narciso stesso, dopo l’agnizione, riconosce come impossibile (Ov. Met. III, 463-466):

Iste ego sum: sensi, nec me mea fallit imago;
uror amore mei: flammas moveoque feroque.
Quid faciam? Roger anne rogem? Quid deinde rogabo?
Quod cupio mecum est: inopem me copia fecit.

Ma quello sono io! L’ho capito adesso, la mia immagine non m’inganna più.
Brucio d’amore per me: accendo la fiamma e la subisco.
Che fare? Essere implorato o implorare? E poi, cosa implorare?
Ciò che desidero è in me: la mia stessa ricchezza mi rende povero.

Narciso riconosce se stesso e comprende l’impossibilità del proprio amore: si può amare solo qualcuno che sia altro da sé. Si suicida perché il suo amore è onanistico, si avvolge su di sé senza lasciare spazio all’altro, precludendo ogni possibilità di realizzazione.

Nella distopia di The Lobster, il protagonista è l’anti-Narciso: David tenta di rispecchiarsi nelle donne che conosce e la frustrazione nasce dal non riuscire a riconoscere i propri difetti in nessuna di esse. David vuole una fonte, vuole poter dire «ma quello sono io».

Lo spettatore ride di questi vani tentativi, ne riconosce la fallibilità e si domanda per quale assurda ragione un miope dovrebbe affannarsi a cercare un altro miope per poter amare.
Ma, inconsapevolmente, è lo spettatore ad essere davanti a uno specchio. Nel declinare il concetto di ‘modernità liquida’, Zygmunt Bauman ha dedicato un’opera alla definizione dei sentimenti ‘liquidi’. La società contemporanea, strutturata dal capitalismo economico e sociale, inculca negli individui l’idea che un oggetto rotto possa prontamente essere sostituito: il ciclo vitale degli oggetti – e delle relazioni – si esaurisce con l’estinguersi della loro utilità per il soggetto. L’acquisizione di un’identità stabile in un mondo liquido diventa difficile ed è nell’altro che cerchiamo conferma della nostra identità. Amiamo – o crediamo di amare – chi ci assomiglia, perché l’altro conferma la visione di noi stessi che abbiamo faticosamente costruito. Non siamo disposti ad accettare una relazione che comporti un incessante e stancante confronto con l’altro, una dialettica che porterebbe necessariamente ad una continua decostruzione e ricostruzione del sé.

Le conseguenze sono sottili, ma imponenti. I social network sono l’ipostasi della retorica dell’io: il ‘mi piace’, la condivisione dei contenuti, i suggerimenti fondati sulla comunanza di amicizie e interessi portano alla creazione di reti basate sull’omogeneità identitaria. Le dating app sfruttano questa stessa retorica per la creazione di coppie che si riconoscono tramite interessi comuni: un virtuale Hotel in cui il tempo è scandito dalle ore che si passano a scorrere i profili altrui. Il desiderio di cambiamento risponde alla presa di coscienza di un carattere limitante della propria personalità, ma, in un mondo – reale e virtuale – dove si ricerca spasmodicamente l’accettazione altrui per ciò che si è, il mutamento diviene un fallimento da evitare. Ci si riconosce senza mettersi in discussione, senza accettare l’idea che le proprie caratteristiche peculiari possano costituire dei limiti da sottoporre a revisione per amore di un altro.

E una tale visione non viene né mimetizzata né nascosta, ma, anzi, romanticizzata. «Chiamami col tuo nome, e io ti chiamerò col mio» dice Oliver a Elio in Chiamami col tuo nome di André Aciman (2007, con adattamento cinematografico di Luca Guadagnino nel 2017). Una storia d’amore senza lieto fine in cui Elio scopre se stesso e Oliver si riconosce, senza però saper mettere in discussione la vita parallela che ha creato e che alla fine sceglierà. E non è forse un caso che la copertina italiana del romanzo rappresenti un ragazzo che, come Narciso, si tuffa in mare per raggiungere se stesso.

Lanthimos mette in scena noi, aspiranti Narciso, e ci mostra come cerchiamo l’amore. E quando, al termine del film, vediamo David esitare nell’atto di accecarsi, novello Edipo alle prese col proprio passato, ci indigniamo e pretendiamo che egli affronti la grande prova per amore della donna cieca. Dimentichiamo però di chiederci se noi saremmo disposti a fare altrettanto.


Fonti:

[1] Dopo aver ucciso una cerva, animale sacro ad Artemide, Agamennone deve placare la dea col sacrificio della più bella delle sue figlie, Ifigenia, pena il fallimento della spedizione achea contro Troia. Nel film di Lanthimos, Steven Murphy (Colin Farrell) dovrà scontare l’uccisione involontaria di un paziente col sacrificio di un membro della sua famiglia, riequilibrando la perdita causata ad un inquietante adolescente (Martin Lang).
M. Bettini–E. Pellizer, Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, Einaudi 2003
S. Macrì (a cura di), Narciso. La passione dello sguardo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, 2020
Z. Bauman, Amore Liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma, Laterza, 2018

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