Confrontare, mettere a fronte, ossia a riscontro una cosa con un’altra, per conoscere la somiglianza o le differenze. Questa è la definizione che ci fornisce un qualsiasi dizionario. Ma cosa succede quando ci confrontiamo con l’Altro? In questo breve articolo pongo una riflessione su cosa è il confronto come costruzione di identità, smontando il concetto di confronto con l’altro come ‘inferiore’.

L’essere umano è un essere esperienziale.
La nostra vita può essere ben descritta come una sorta di Bildungsroman alla David Copperfield, fatta di peripezie, di delusioni, di vittorie, ma soprattutto di incontri.
Molti pensatori, sin dai tempi del mito della caverna, sono d’accordo su questo, l’incontro con l’altro forma la nostra identità. Pensiamo a un curriculum, questa volta fatto di esperienze non solo in campo lavorativo, ma in campo umano. Con quante persone ci confrontiamo ogni giorno nella nostra vita, anche indirettamente, attraverso, per esempio, una lettura o al telegiornale? Molteplici. Ecco, se nella rigidità del curriculum dovessimo inserire queste come abbiamo imparato ad acquisire le cosiddette soft skills, sarebbe bello poter disquisire degli incontri-scontri con i nostri genitori, l’amico del liceo, il relatore o la relatrice e via dicendo. La nostra identità si è formata proprio grazie al confronto con l’altro, l’altra, e accostandosi al pensiero di Friedrich Schelling, la differenza è parte fondamentale della costruzione del nostro io, in quanto rende possibile la molteplicità. Lo spiega anche l’etimo di ‘confrontare’, cioè riscontare una cosa con un’altra al fine di conoscere le somiglianze e le differenze.
Concentriamoci ora sulla parola ‘differenza’. Sin dalle elementari ci insegnano che la differenza è il risultato di un’operazione di sottrazione, quindi presuppone sempre un meno, un’inferiorità. Nella nostra cultura è quasi automatico pensare alla differenza come un ‘più’ o un ‘meno’, la mente è settata sul migliore e sul peggiore di me in quanto manca un concetto libero di differenza, una differenza che non scade subito nell’essere meno, ma una differenza che sia fonte di ricchezza per entrambi i soggetti in relazione. Manca la parola per designare una disparità non inferiorizzante, e questa assenza è sintomatica di un vuoto di pensiero. Questo mancato luogo dell’accezione del diverso non come demonizzante si riflette soprattutto nel confronto con l’altro, con l’altra. Nel momento in cui il singolo si rapporta all’altro le strade che si prospettano sono esse stesse diverse.
Nell’esperienza globale possiamo considerare due tipi di confronto: confronto positivo e confronto negativo. Un confronto è fertile nel momento in cui accetti di interfacciarti con qualcosa o qualcuno, qualcuna di diverso da te, riuscendo a metabolizzare e farlo tuo senza parametri di giudizio. Il confronto può definirsi negativo nel momento in cui non c’è il riconoscimento dell’umano che è in noi negli altri, e giudichiamo secondo parametri totalizzanti. «L’accoglienza è il primo contatto con l’altro» – afferma Romano Trabucchi in un suo articolo sulla convivenza con l’altro – «le diffidenze, i pregiudizi, gli stereotipi radicati nel nostro modo di pensare e la nostra pigrizia rendono incerto e difficile il nostro rapporto con l’altro». La stereotipizzazione dell’altro, o dell’altra, il pregiudizio, la concezione inferiorizzante di diversità hanno portato nei secoli e, duole dirlo, ancora oggi a una serie di soprusi, ingiustizie secondo parametri ben definiti. Come non menzionare la lotta femminista, in particolare la seconda ondata degli anni Settanta dove troviamo Luce Irigaray che denuncia una società ‘fallocentrica’, nella quale l’entrata nel mondo intellettuale (e non solo) da parte del sesso femminile è una battaglia faticosa. Ancor prima di lei Virginia Woolf nel suo splendido saggio A Room of One’s Own, nel quale afferma che per secoli le donne sono state degli specchi in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata, criticando una cultura che convalida l’inferiorità di un sesso rispetto ad un altro. Ma Virginia non denuncia soltanto l’assenza delle donne dal panorama culturale e sociale: nell’ultimo capitolo auspica a un matrimonio dei contrari, costruire un ponte verso l’altro, l’altra, trovando una forma di dialogo, di confronto pacifico, di ibridazione, rispettare l’unicità della differenza tra i sessi e oltrepassare la soglia di quella stanza affinché non diventi una prigione.

La diversità non è solo un fatto di genere. La diversità è presente in svariate sfumature, da quella politica a quella religiosa, a quella razziale. In questo caso si potrebbe parlare di vera e propria discriminazione dell’altro secondo parametri puramente ‘occidentalizzati’. Daniel Defoe, il cosiddetto father of the novel, nel 1719 scrive Robinson Crusoe, che tutti e tutte conosciamo. Da uomo del suo tempo, il naufrago crea una piccola società borghese all’interno dell’isola, salva e ‘addomestica’ un selvaggio chiamandolo Friday, come il giorno del loro incontro. J. M. Coetzee, sudafricano, premio Nobel per la Letteratura, nel 1986 pubblica Foe, in cui riprende le vicende del romanzo dello scrittore inglese spostando il centro della figura del colonizzatore a quella del colonizzato. La sua denuncia a partire dal titolo – Coetzee riteneva che il vero cognome di Defoe fosse Foe, che in italiano significa ‘nemico’ – è che sinora si è parlato di un confronto giudicato su basi prettamente occidentali legate alla white supremacy, e non si è mai lasciato parlare il vero o la vera protagonista. Nadine Gordimer, anche lei premio Nobel, fa un passo in più rispetto al connazionale Coetzee: il confronto con l’altro diventa positivo. Per comprendere l’altro è necessario abbandonare la white race, affrontare una seconda rinascita, quella del riconoscimento del white guilt, e mettersi nei panni dell’altro: comprendere l’altro diventando l’altro.
Il confronto quindi non prende le pieghe del conflitto, ma come costruzione dell’identità umana con tutte le sue molteplicità.
Ancora oggi sono alti muri che si frappongono fra differenze manichee, maschio o femmina, bianco o nero, cristiano o musulmano. E se invece della ‘o’ mettessimo una ‘e’?