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Nel 1692 a Jürgensburg, un paese di lingua livone nel Golfo di Riga, un vecchio di nome Thiess, più che ottantenne, viene arrestato con l’accusa di licantropia. Interrogato dai giudici confessa apertamente di essere un lupo mannaro, un wahrwolf. Ma il suo racconto durante il processo, si discosta moltissimo dall’immaginario collettivo sulla licantropia diffusosi nella cultura popolare Europea.

… cum ecce iam uespera lucernam intuens Pamphile:
«Quam largus», inquit, «imber aderit crastino»,
et percontanti marito qui comperisset istud respondit sibi lucernam praedicere.

[Quand’ecco che, ormai a sera, Panfila, guardando la lucerna:
«che abbondante acquazzone», disse, «ci sarà domani!»
Il marito le chiese come facesse a saperlo, e lei rispose che glielo prediceva la lucerna]
Apuleio[1]


Questa è una storia di licantropia. Una storia di metamorfosi inquietante, di come le ombre si muovono nelle tenebre della notte. Siamo di fronte ad una metamorfosi fisica, innanzitutto, di come un uomo si trasformò in bestia e rese pubblica la sua confessione. E culturale anche: il racconto che dà prova dell’esistenza di un culto agrario antichissimo, che si discosta da tutto quello che credevamo di conoscere sull’argomento.

Oggi, a causa dell’immaginario fornitoci negli ultimi decenni dal genere fantasy e da una lunga serie di film horror, gotici, il lupo mannaro sopravvive nelle mentalità collettive dei popoli europei solo come l’uomo-lupo, una bestia orrenda, assassina e demoniaca. Non è sempre stato così.

È il 1692. A Jürgensburg, un paese di lingua livone nel Golfo di Riga tra le attuali Lettonia ed Estonia, si verifica un fatto strano. Un vecchio di nome Thiess, più che ottantenne, viene arrestato con l’accusa di licantropia. Interrogato dai giudici confessa apertamente di essere un lupo mannaro, un wahrwolf. Ma il suo racconto, durante il processo, si distacca moltissimo dall’immaginario collettivo sulla licantropia diffusosi per decenni in parte della cultura popolare europea dalla Francia alla Germania, fino ai Paesi Baltici[2]. Il vecchio Thiess racconta ai giudici di essersi scontrato con un contadino di Lemburg, di nome Skeistan, morto ormai da diverso tempo. Skeistain era uno stregone, un adoratore del demonio, che aveva mandato in rovina i raccolti gettando i germogli di grano nell’Inferno così che le messi non crescessero. Thiess allora, trasformatosi in lupo, lo aveva inseguito e si era battuto con lui. Lo stregone però, armato di un manico di scopa (il tradizionale attributo delle streghe), lo aveva colpito in volto, rompendogli il naso.

Non si era trattato di uno scontro occasionale. Tre volte all’anno nelle notti di Santa Lucia prima di Natale, di Pentecoste e di San Giovanni, i licantropi si recano a piedi in forma di lupi in un luogo situato ‘alla fine del mare’: l’inferno. Là essi lottano col diavolo e con gli stregoni battendoli con lunghe fruste di ferro, inseguendoli come cani. I lupi mannari – esclama Thiess – ‘non possono soffrire il diavolo’.[3]

I giudici sono sorpresi, rimangano stupiti ed esigono ulteriori spiegazioni. Il vecchio continua il suo racconto: i lupi mannari, dice, riportano sulla terra ciò che gli stregoni hanno rubato – bestiame, grano e altri frutti del territorio. Se non lo facessero tempestivamente, si verificherebbero carestie e cattivi raccolti. E ancora; quando i lupi muoiono vengono sepolti come la gente comune e le loro anime ascendono al cielo. Quando sono gli stregoni a morire invece, il diavolo prende con sé le loro anime. Come è possibile, chiedono allora i giudici, che delle creature che servono il demonio ascendano al paradiso? Il vecchio Thiess allora rigetta l’accusa e nega espressamente di servire il diavolo. Anzi, è per il bene degli uomini tutti che lui e quelli come lui gli danno la caccia, in nome di Dio, per propiziare la fertilità dei campi. Sono racconti sconcertanti questi agli occhi degli inquisitori. Non è difficile per noi immaginarlo. Lupi mannari che combattono contro degli stregoni in nome della fede in Gesù Cristo per proteggere i raccolti dai malefizi degli stregoni. I cani di Dio, è così che si chiamano i nemici del demonio da queste parti.

Il vecchio non volle pentirsi. Ascoltato più volte confermò la sua versione e non ammise mai di aver stretto un patto col diavolo per trasformarsi in bestia. Non volle reiterare nemmeno dopo che il suo parroco lo redarguì cercando di fargli abbandonare i suoi errori assieme alle diaboliche menzogne che aveva raccontato. Dimostratosi quindi colpevole di idolatria e di credere a macabre superstizioni, fu condannato il 10 ottobre del 1692 a dieci colpi di frusta sulla schiena. Da anni ormai i tribunali di queste regioni avevano cessato di utilizzare la tortura come mezzo per estorcere le confessioni agli imputati[4]. Il che, se vogliamo (o immaginiamo), rende tutta la confessione ancora più fascinosa.

Alla fine del XVII secolo i giudici e gli inquisitori di queste regioni all’altro capo d’Europa conoscevano bene le storie sui licantropi, la figura e gli attributi di queste bestie demoniache rigettate sulla terra dalle viscere dell’inferno. Ma dai racconti del vecchio Thiess emerge invece l’esistenza di un culto agrario, dove gli uomini trasformati in lupi mannari difendevano i raccolti e il bestiame dai nemici della prosperità umana e della fertilità della terra, cioè il diavolo e le streghe.

Nel corso degli anni e in seguito a pressioni ben precise da parte dei giudici, i lupi mannari scomparvero. La loro figura fu snaturata e i singoli casi di cui abbiamo memoria passano alla storia come pittoreschi e folcloristici deliri di individui, affetti da nevrosi, epilessia e isterismo, come spesso si tenne a pensare poi della stregoneria.

Della sopravvivenza nella cultura popolare di questi culti agrari nell’Est Europa sappiamo ben poco[5]. Potrebbe essere uno stimolo per ricerche future.


Fonti:

[1] Apuleio, Le metamorfosi o L’asino d’oro, (a cura di A. Fo), Torino, Einaudi, 2015, liber II, cap. 11, pp. 60 – 63.
[2]Vedi C. Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966, p. 51. Si noti che Ginzburg rimanda al Commentarius de praecipuis generibus divinationum di C. Peucer, Witebergae, 1580, dove è inserita una discussione sul problema dei licantropi.
[3]C. Ginzburg, op. cit., p. 48.
[4]Ivi, p. 51.
[5]Per ulteriori approfondimenti classico, anche se discusso, il rinvio a C. Ginzburg, Storia Notturna. Una decifrazione del Sabba, Torino, Einaudi, 1989, in particolare pp. 187 – 205. 

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