L’artista Maria Lai propone per la prima volta in Italia la realizzazione di un’opera d’arte relazionale, una scultura sociale ma anche una grande festa. Il varco spaziale ed emozionale che apre sembra pregno di infinite possibilità di azione e di confronto: le persone sono gli attori di questo grande rito contemporaneo.
«Passo lunghi periodi a osservare fili. Sembrano spartiti. O quaderni a righe. L’autore è chiunque. Gente anonima. Il caso. Il vento»[1]. I fili su cui stendiamo timidamente i nostri panni, i fili di vecchi telai che hanno cessato di funzionare anni fa, tutti ci raccontano una storia.
Maria Lai, artista sarda nata a Ulassai nel 1919, opera in una dimensione liminare, in una sorta di varco aperto al confronto, dirompente, immerso in un atemporale naturale, e lo fa recuperando fili, tessuti e telai tratti da un comune passato quotidiano, quello di una Sardegna povera, ma animata dalla manodopera di donne/Penelope che l’artista non si stancava mai di ammirare quando era bambina.

L’artista, una pippia-beccia[2], dialoga con le funzioni quotidiane dell’oggetto-filo, un gioco per bambini ad esempio (si pensi al tiro alla fune o all’elastico dentro cui si saltava durante l’ora della ricreazione) o un materiale creativo (quello delle donne tessitrici), e a partire da questo medium agisce secondo una logica trasversale. Il filo può divenire un ponte e può corrispondere, nella sua lingua, al fare arte; esso mette in relazione, connettendo, e offre una via di salvezza, data dalla scoperta inaspettata, poiché gratuita, proprio quella che l’arte dovrebbe indicarci. Lo stesso ponte pone a confronto il mondo sacro dell’arte e quello profano dell’artigianato tessile; quest’ultimo infine attraverso la sua concretezza materiale invoca un’invisibile corrispondenza, o meglio un legame, quello tra le persone e il paesaggio a loro circostante.
Ebbene è proprio in questa geografia di tessuti, materiali e ideali, nata in una zona di confine e confronto, che nel 1981 Maria Lai riesce a coinvolgere tutta la gente di Ulassai per quella che passerà alla storia come prima opera d’«arte relazionale» italiana: Legarsi alla montagna.
Appena un anno prima il sindaco del paese voleva commissionare all’artista la realizzazione di un monumento ai caduti; l’artista replica proponendosi piuttosto di realizzare un monumento «ai vivi e non ai morti». Fu così che si ispirò a un’antica leggenda di Ulassai: una bambina trova rifugio presso una cava scavata nella montagna per ripararsi da un forte temporale; d’un tratto viene attratta fuori dalla caverna alla vista di un nastro celeste, salvandosi così da una pericolosa frana che si sarebbe schiantata su di lei di lì a poco.
Protagonista insieme alla gente è per l’appunto un grande nastro celeste (come il cielo e il mare) che attraversando il paese va direttamente a Legarsi alla montagna sovrastante, passando inoltre tra i vicoli e facendosi strada tra una casa e un’altra: si sa quanto spesso antiche faide e datati litigi abbiano sciolto rapporti tra persone che condividono la stessa porta, o la stessa via, specie in paesini d’Italia delle dimensioni di Ulassai. Questa operazione procede invero su un piano narrativo simbolico: «dove vi erano motivi di rancore il nastro sarebbe passato diritto, dove vi era serenità si sarebbe fatto un nodo, in presenza di amicizia un fiocco e in caso di amore si sarebbe intrecciato un pane della festa»[3]. Sembrerebbe un gioco, quello di Maria Lai, la vecchia bambina che gioca seriamente, perché «l’arte è il gioco degli adulti»: il nastro si pone appunto come metafora dell’arte, che mette a confronto, crea nuove emozioni, connette, scioglie e ricuce contesti e persone.
Forse alcuni di questi rancori non saranno mai cancellati, ma il nastro, il fare arte, non è stato inutile per il semplice fatto di averli messi in evidenza, di avergli dato una possibilità di confronto vitale e quindi una maggiore consapevolezza. L’arte infatti non regala alcun tipo di certezza, non è una culla soave ma più una bomba a orologeria che sfonda la parete divisoria e propone nuove possibilità di lettura: la bambina esce dalla grotta per inseguire il nastro non pensando a proteggersi, ma la sua salvezza risiede in questa gratuità, «nell’assenza di calcolo di chi non smette mai di stupirsi per ciò che è inaspettato»[4].
Il nastro è il segnale visibile in cui si snodano le invisibili geografie di tessuti sottese all’intera opera: adagiandole su questo varco liminare Maria Lai le fa dialogare tra loro, facendo sì che questo dialogo sia udibile da tutti coloro che vogliano ascoltare: una porta d’accesso si apre a chi vuole saperne di più, all’insegna del fatto che «il fare fa rilasciare energie, e anche se non arriverà a essere arte, porterà alla comprensione di qualcos’altro»[5].
Un’opera coinvolgente, visivamente ed emotivamente, oltretutto forte della convinzione che «la grande arte è quella che arriva alla gente che cammina per strada»[6].
Maria Lai ha prima di tutto tentato di fare arte, non preteso, ma agito, ponendo in essere inoltre una profonda riflessione sul concetto di arte stesso. Sin dalle sue prime opere, i Libri Cuciti e i Telai, fino a Essere è tessere[7], veniamo introdotti nel suo mondo, il cui linguaggio è quello del cucito, le lettere sono dei fili dalle innumerevoli possibilità semantiche e gli attori siamo, insieme a lei, noi.
Maestra di vita, pedagoga, artista, Maria Lai si è spenta il 16 aprile 2013 nella sua casa di Cardedu, ma l’eco dei suoi insegnamenti risuonerà per sempre tra le rocciose montagne dell’Ogliastra: «il nastro non sarà più qui a testimoniare, nel Tempo, ma forse questa storia si racconterà, avrà fatto parlare di sé. Una poesia, fatta di parole, può essere un monumento, perché non anche fatta con un nastro?»[8].
Questa eco giunge fino a noi e ci invita ad aprirci dunque al confronto con la vita intera e alle infinite possibilità di conoscenza che il mondo nasconde: «Le vent se lève… il faut tenter de vivre»[9].
Fonti:
[1] Andrés Neuman, Le cose che non facciamo, Roma, Edizioni SUR, 2017, p. 124
[2] In sardo una “bambina vecchia”
[3] Davide Mariani in Maria Lai, Tenendo per mano il sole, (Roma, MAXXI, 19 giugno 2019-12 gennaio 2020), a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, Roma, 5 Continents Editions, 2019, p. 201
[4] Antonella Anedda in Maria Lai, Tenendo per mano il sole, (Roma, MAXXI, 19 giugno 2019-12 gennaio 2020), a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, Roma, 5 Continents Editions, 2019, p. 85
[5] Tonino Casula incontra Maria Lai, https://www.youtube.com/watch?v=-lsmgYKFDkk
[6] MAREMURO. Appunti per un dialogo realmeraviglioso. Maria Lai in dialogo con Antonio Gramsci, Cagliari, CUEC, 2014
[7] Azione collettiva realizzata a Ulassai nel 2008
[8] Davide Mariani in Maria Lai, Tenendo per mano il sole, (Roma, MAXXI, 19 giugno 2019-12 gennaio 2020), a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, Roma, 5 Continents Editions, 2019, p. 203
[9] Paul Valéry, Le Cimetière Marin, 1920
Andrès Neuman, Le cose che non facciamo, Roma, Edizioni SUR, 2017.
Maria Lai, Tenendo per mano il sole, (Roma, MAXXI, 19 giugno 2019-12 gennaio 2020), a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, Roma, 5 Continents Editions, 2019.
MAREMURO, Appunti per un dialogo realmeraviglioso. Maria Lai in dialogo con Antonio Gramsci, Cagliari, CUEC, 2014.
Paul Valéry, Le Cimetière Marin, 1935.