Palin parla con Eleonora Ines Nitti Capone, poetessa classe ’98, che si è prestata per raccontarci la sua poetica e il suo modo di vedere una poesia personale e con personalità. Attraverso i suoi versi e i suoi poeti-maestri, racconta i temi e i sentimenti che attraversano le sue due raccolte, Primo Fuoco e La parola buona.

Quella di Eleonora Ines Nitti Capone (Lecce, 1998), studentessa di Lettere Classiche, è una poesia consapevole. Dopo la lettura di entrambe le sue raccolte, Primo Fuoco (2019) e La parola buona (2020), l’impressione più evidente è quella di essere davanti ad una poesia lirica ed evocativa, che sembra rifarsi ai modelli dell’impressionismo poetico, e che richiama presenze leopardiane (la tempesta, la pena, la campagna, la natura tutta) e quelle di paesaggisti del secolo successivo quali Vincenzo Cardarelli e Giorgio Caproni (col quale la Capone ha in comune la ricorrenza del fuoco, inteso come forza vitale). Una poesia che, pur prendendo spunto da queste altezze vertiginose, non ha il sapore del citazionismo, e non si pone come mero – ed effimero – tentativo emulativo. Al contrario, la poesia della Capone sa di nuovo, ponendosi come esempio, al giorno d’oggi raro, d’una poesia personale e con personalità. Ciò vuol dire che l’io poetico sembra rispecchiare in maniera fedele l’io poetante, poesia e poetessa si conoscono e riconoscono, in un riuscito tentativo di verità. La poetessa ha trovato, nonostante la giovane età, la sua voce. Ed è una voce originale. Lo dimostra il fatto che nessuno dei temi più inflazionati e attuali della poesia contemporanea tocchi i suoi componimenti. C’è amore, certo, c’è vita e c’è morte, capisaldi d’ogni poesia e specialmente d’ogni buona poesia, ma ci sono divinità alternative, c’è Dio, un dio da decifrare all’interno d’una dimensione religiosa netta ma plurale, c’è la natura coi suoi paesaggi di mare e di campagna e la figura di un profeta che parla per conto di qualcun altro. C’è, in ultimo, il messaggio, la novella, la Parola che il poeta sa, conosce, e che deve portare in mezzo agli uomini e alle donne.
L’ho incontrata per conto di Palin per fare quattro chiacchiere con lei.
Eleonora, la prima domanda nasce da una profonda convinzione che ho maturato sul campo, e che il progetto “Palin” condivide: quella cioè che dietro e a monte di ogni buona scrittura debba esserci buona lettura. Quali sono i tuoi riferimenti letterari?
Il mio primo riferimento è la Bibbia, un testo che mi accompagna da qualche anno, ricchissimo e inesauribile, e poi Rumi, che mi piace molto. Riguardo il panorama contemporaneo sicuramente Christian Bobin, un poeta francese pubblicato dalla mia casa editrice, la AnimaMundi, e Chandra Livia Candiani.
Davide Rondoni sulla rivista “Clandestino”, che ha pubblicato alcuni tuoi inediti, ha definito la tua voce poetica di una forza quieta ma potente, abitata da qualcosa di fluviale e segreto. E in effetti la prima impressione è proprio quella di essere di fronte a una forza che spinge per palesarsi, e magari si sta già palesando mentre si legge, ma che impegna il lettore in una riflessione più cauta. Cos’è che alimenta la tua voce poetica?
La volontà di essere testimone. Non una testimone in balìa del caso ma una testimone consapevole, di qualcosa che io scelgo, o meglio di quella verità che io riesco a percepire nella realtà, quella piccola parte di verità che nella mia esperienza io riesco a percepire.
Nella prefazione della raccolta si parla infatti di un uomo, un eremita che vive su di un monte e di giorno scende tra la gente del villaggio. Quando un uomo gli chiede il perché della sua discesa quotidiana e dei suoi discorsi, egli risponde: «Ciò che incontro si mostra a me perché io lo porti agli uomini e sia visto dal villaggio. Salgo sul monte verso la prima stella, la stella parla ed io porto la parola. Sono testimone, e lo sono perché essa me lo chiede, ed essa me lo chiede per voi». L’uomo che porta la parola agli uomini è il poeta? Si può parlare, nella tua visione, di poeta-profeta?
Io direi, svestendomi di questa veste così altisonante del poeta, che colui o colei che si fa tramite tra la stella e l’uomo, chiunque esso o essa sia, è un uomo o una donna sensibile, che sviluppa quindi sensibilità nei confronti della realtà e riesce ad avere questo contatto, che può essere anche un contatto con qualcosa di non perfetto ma che sicuramente lo è con qualcosa di profondo. Una volta raggiunto questo contatto, l’animo sensibile traduce e riporta agli altri. Nel mio caso il canale di comunicazione è quello della parola poetica, ma potrebbe essere una qualsiasi altra forma d’arte o semplicemente la parola di qualcuno lontano da ogni riferimento artistico che però percepisce e di conseguenza condivide.
Il tema più evidente in Primo Fuoco, non so se per te ha una qualche priorità rispetto ad altre immagini e tematiche che tratti, è sicuramente il fuoco, non solo perché dà il titolo alla raccolta ma perché torna in molti componimenti. Personalmente ho rintracciato il fuoco sia in un’accezione di forza vitale, di fiamma che arde e consuma, sia in una di sacrificio, e quindi di morte. Quanto peso hanno il fuoco e questa sua doppia accezione?
La prima cosa che mi viene in mente è che la raccolta inizialmente si chiamava Vado verso la bestia. Cambiai io stessa il titolo dopo aver ascoltato una persona molto autorevole per me che mi parlò, a proposito di testi sacri, di un passaggio della Bibbia in cui Giovanni Battista parlava alla gente intorno a lui dicendo: «Verrà Gesù Cristo e vi porterà un battesimo più grande di quello che vi ho portato io, il suo battesimo sarà fatto con lo Spirito Santo e con il fuoco». Il valore che ha in questo caso il fuoco è quello della distruzione del sé per fare spazio ad una successiva rinascita, cioè il bruciare tutto ciò che c’è stato in precedenza per poter essere nuovo. Quest’idea di rinnovarsi lasciandosi divorare dalle fiamme mi guida molto nella vita, e brucerei volentieri su un rogo una parte di me per lasciarmela alle spalle.
Il terzo tema che ho individuato all’interno della tua raccolta, dopo il messaggio profetico e il fuoco, è quello di una sofferenza collettiva, un fardello che gli uomini e le donne del mondo si portano addosso, unico e invisibile. Vittorini parlava di questo male, un male che affliggeva le anime della società; la strofa di una tua poesia, «noi soffriamo e abbiamo terrore/e con tutto il cuore non vorremmo entrambi» mi ha fatto pensare a Conversazione in Sicilia, romanzo nel quale tornano in maniera misteriosa e ossessiva il terrore e l’afflizione per una sofferenza più grande di quella individuale. Nel caso di Vittorini il male comune è incarnato dal fascismo e dalle condizioni di un’Italia sulla soglia della più grande tragedia del Novecento. Tu in che cosa identifichi questo male?
Questa domanda mi piace particolarmente perché tocca seppur tangenzialmente un tema che mi è molto caro: il Fascismo. Per tanti anni la militanza politica è stata un punto importante della mia vita, lottavo contro tutto quello che poteva considerarsi la nuova manifestazione del Fascismo ai giorni nostri; col passaggio all’università quell’aspetto più militante e concreto è venuto meno e, come diceva Alfieri, ho deposto la spada e preso la penna. Ad un certo punto cioè mi sono chiesta quale fosse il vero modo per incidere, e in questo momento quello che mi sembra più potente è il mezzo della scrittura, quindi lo utilizzo anche per combattere le manifestazioni di un male precedente, antico e profondo, che si manifesta attraverso la follia del razzismo, della prevaricazione, del fare violenza su qualcuno che è uguale a te ma che vuoi rendere inferiore. Secondo me il male e la sofferenza che ci accomunano sono definibili “orfanezza antica”, come cioè se fossimo tutti figli di un padre precedente di cui abbiamo perduto memoria; ne ricordiamo la mano, la testa, ma non siamo più in grado di sentirci con lui, vicini a lui, e questo dà vita ad un profondo senso di nostalgia, di inadeguatezza e di mancanza di amore che spinge poi a cercare quest’amore perduto nelle più svariate forme e in ogni angolo della terra.
Cosa potrebbe alleviare questo dolore collettivo, secondo te?
Ciò che io vedo è che noi non stiamo con noi stessi, non ci dedichiamo davvero a noi stessi. Passiamo gran parte del tempo con noi eppure non abbiamo un contatto profondo. Io credo che prima di tutto dovremmo esserci per noi, prima di dedicarci agli altri e cercare legami esterni.
Imparare a conviversi?
Curarsi, più che conviversi. Prendersi cura di se stessi, profondamente. Sembra New Age?
No, ho capito ciò che intendi. Capisco perché il termine conviversi non ti sia piaciuto, perché la convivenza presuppone sempre un compromesso, no? Invece noi non siamo in convivenza con noi stessi ma un tutt’uno.
Esatto.
Un’altra presenza molto forte in Primo fuoco è quella della natura. Sono diverse le poesie in cui c’è questo io poetico in stretto contatto, quasi in simbiosi, con i luoghi. In una poesia parli di un «Olimpo della provincia povera di mare», e in un’altra scrivi: «Ecco torna/l’anima mia al suo nido di schiuma/al mallo spaccato della noce/ai resti ancora tiepidi dell’uovo schiuso»; è, la natura, madre e divinità? Ed è il poeta, in questo senso, messaggero di natura intesa come Madre Natura?
Sia dio che la natura, come dici, sono molto presenti nella mia scrittura, sento molto entrambi. Direi che si somigliano, e incontrano entrambi un altro elemento fondamentale: il silenzio. Se non c’è silenzio è difficile trovare un contatto profondo. Nel mio caso, comunque, natura e animali sono importanti perché li sento vivi. Da bambina osservavo il mio gatto e dicevo a mia madre: «Mamma, il gatto è vivo»; la reazione a questo poteva essere “la bambina è pazza”, ma guardare il gatto e prendere coscienza di come fosse vivo esattamente come me, permeato dello stesso spirito vitale che teneva in vita anche me, mi emozionava. E quindi dicevo: «Mamma, il gatto è vivo!»
«Grazie per la constatazione», era magari la risposta di tua mamma.
Esattamente!
Prendiamo una poesia:
Come chi in letargo ai tepori del risveglio
e chi migrando al riposo della stasi
io, lenta nel corpo, attendo l’ora che ritorni.
Ed il figlio alla madre con il cibo
e il padre al figlio miserando:
così passano i tempi della terra.
Nel contatto con la natura il poeta trova verità inaccessibili all’uomo comune, facendosi acqua e facendosi aria per diffondersi appieno in ogni sua fase, seguendo – come recita un tuo verso – «i tempi della terra», il letargo e il risveglio e, mi pare, facendosi esso stesso natura e animale per attendere – cito ancora – «l’ora che ritorni». Che cosa deve tornare? C’è un’attesa nella tua scrittura?
Come prima cosa mi viene da dire che a me rimane difficile rendere conto di ciò che ho scritto, perché è come se quella cosa si fosse scritta da sola, come se entrasse e uscisse attraverso la mia mano, usandomi come mezzo e tramite. Riguardo il ritorno: scuramente c’è un ritorno e c’è l’attesa di un ritorno, è un’ottima osservazione perché la sento vera. Ma ritornare dove? In un posto dal quale io sento di venire, e dal quale penso veniamo tutti, che è quel padre di cui parlavamo prima, che non è prettamente una divinità, è un’origine.
Quindi tu ti ritrovi in quella che alcuni definiscono ispirazione? Un termine che a tanti non piace ma che per alcuni è tutto.
Ho una risposta precisa a questa domanda: io penso che esistano dei flussi, alcuni più alti, altri più bassi, più o meno profondi. Se io sono presente, se mi prendo del tempo per me, per pensare e riflettere, e dedico tempo al silenzio, il flusso acquista forza ed è lì che nasce la poesia. Quindi non è casuale, io posso cercare la poesia.
Nella tua ultima raccolta, La parola buona, c’è una poesia che recita così: «Io desidero portare la parola buona/perché so che non esiste altro che sia giusto/che la terra voglia/nient’altro che il sole mi domandi/del quale il mio compagno di cammino/abbia bisogno», e sul finale «io desidero per te la mia parola buona/e la tua per me se lo vorrai».
In Primo Fuoco c’è questa:
Verrà un uomo e ti porterà la mia parola
tu accoglilo e fidati
credici e non spaventarti
prendi la parola e custodiscila
anche se non la comprendi, covala
tienila in un tepore tiepido così che un giorno schiuda
Verrà l’uomo che e ti dirà chi sei
egli ti porterà la mia parola
tu credici e non spaventarti.
C’erano già in Primo Fuoco, mi sembra, le premesse per La parola buona, dico bene? Cos’è, davvero, una parola buona?
Potrei dire che questa cosa di anticipare in qualche modo il lavoro che io già sento nascere in me per un futuro prossimo è stata finora una costante, nel senso che anche nella Parola buona c’è qualcosa che sta nascendo per i prossimi lavori. Quindi sì, questa sottile concatenazione tra le parti c’è. Per quanto riguarda cos’è, la parola buona, direi che è una parola che porta sollievo, in qualsiasi caso. La parola diventa buona quando chi la dice scompare da essa: io dico una parola che è buona quando non compaio in essa.
Quindi una parola assoluta, non toccata in alcun modo dalla soggettività.
Sì, esattamente.
E se ti chiedessi cos’è che questa parola dovrebbe portare?
Presenza. Questa credo sia la parola adatta.
In entrambe le tue raccolte ho trovato temi e immaginari molto poco convenzionali, specialmente se ci rifacciamo al panorama contemporaneo della poesia esordiente. Ti senti o vorresti essere una voce fuori dal coro in questo panorama?
Non so in che direzione stia andando la poesia contemporanea perché la leggo poco, ma posso anche non interessarmi a questo, ciò che mi deve interessare è la direzione dell’umanità, dell’uomo nella sua interezza, più che quella della poesia. Non cerco di essere una voce fuori dal coro e non so se lo sono, dipende anche da quale coro noi consideriamo.
Quale delle tue due raccolte reputi migliore?
La parola buona, per il fatto che credo di essere cambiata e migliorata in quest’ultimo anno, ed essendo questa una figlia più recente la sento maggiormente vicina.
Ti senti anche cambiata da un punto di vista formale e stilistico?
Sì, direi di sì, nella direzione della pulizia.
Cosa vi aspetta, a te e alla Parola buona, nel prossimo futuro?
Sicuramente faremo un piccolo tour di performance, reading e letture musicate non appena sarà possibile, e poi vediamo cosa succede. Io nel frattempo continuo a scrivere.
Grazie, Eleonora.
Grazie a te, Daniele. E grazie Palin.