Da più di un secolo filosofi e pianificatori si interrogano sul rapporto tra città e natura. Nell’epoca dell’Antropocene questa riflessione diventa ancora più urgente, visto che stravolgere il rapporto tra queste sfere è fondamentale per ridurre il nostro impatto sul pianeta.
Da una decina d’anni a questa parte il numero delle persone che vivono in aree urbane ha superato quello delle persone che vivono in zone rurali [1]. Più precisamente, si stima che il 56% degli esseri umani abiti in città [2]. Alla luce di questa tendenza è ormai impensabile ragionare sul presente e sul futuro senza tenere conto del modo in cui si vive in questi luoghi.
Con l’avvento della rivoluzione industriale il rapporto tra la sfera urbana e quella rurale è stato completamente stravolto. Da una condizione preindustriale di relativo equilibrio, infatti, le campagne sono diventate entità subalterne, destinate ad un ruolo ben preciso: fornire le materie prime per sostentare la produzione concentrata in città. La campagna non è più quindi il luogo della produzione, bensì quello dell’estrazione e del consumo dei prodotti generati in città. Come ricorda Guidicini nel suo saggio Il Rapporto Città-Campagna:
La grande industria determina la separazione dell’agricoltura da quelle che erano le varie forme di produzione artigianale e di consumo domestico già proprie del mondo rurale, distruggendone ogni possibile esperienza[3].
È bene tenere a mente, tuttavia, che l’urbanizzazione, soprattutto a cavallo del XX secolo, è molto più del fenomeno fisico che vede le città espandersi in dimensioni e popolazione. Come ricorda Wirth, è soprattutto il diffondersi di uno stile di vita veloce ed alienante che sottopone i cittadini a uno stress senza precedenti. Questa tendenza ha modificato in maniera radicale il rapporto con lo spazio, col tempo e con l’altro.
Gli effetti nefasti della città industriale, dal punto di vista psicologico e socio-sanitario (sovraffollamento, mancanza di servizi igienici, ambienti insalubri), hanno spinto diversi studiosi, a inizio Novecento, a ripensare la città cercando di svincolarla dalle dinamiche alle quali il capitalismo industriale l’aveva condannata. Un punto di riferimento in questo senso è il pensiero dell’utopista britannico Ebenezer Howard, ideatore del modello di Città Giardino, concepita per coniugare gli aspetti più virtuosi della metropoli primo novecentesca a quelli di una vita a stretto contatto con la natura. Una Città Giardino garantisce condizioni di vita e di lavoro sane, è di una dimensione che rende possibile la vita sociale ed è circondata da una Green Belt, cioè una cintura verde. Questo modello di città è stato sperimentato in diverse parti del mondo, anche se oggi ne rimangono pochi esempi. Ma nonostante la pianificazione originaria di Howard non abbia attecchito, parecchi degli spunti del suo lavoro sono attuali e il suo pensiero ha condizionato il modo in cui molte città sono state pianificate nello scorso secolo.

La ‘nuova’ variabile, tuttavia, è la crisi climatica che stiamo attraversando. In un mondo più che mai urbanizzato, stravolgere il volto delle città rappresenta un passo fondamentale nella lotta a questa condizione. Le città sono i luoghi dove gli effetti più tangibili del cambiamento del clima possono essere osservati, perché i materiali usati e il modo in cui sono state realizzate le hanno rese vulnerabili agli effetti del surriscaldamento globale. Tra questi, la formazione di isole di calore[4] (zone della città in cui si raggiungono temperature insopportabili durante i mesi estivi), le alluvioni dovute all’incapacità del terreno di drenare grandi quantità d’acqua, e l’inquinamento dovuto al traffico. In questo contesto, la vegetazione giocherà un ruolo centrale, poiché in grado di mitigare tutte e tre le criticità appena evidenziate.
Stefano Boeri, uno tra gli Starchitect attualmente più popolari nonché architetto del bosco verticale di Milano, ha recentemente affermato che il verde urbano dovrebbe superare la sua connotazione decorativa diventando parte viva del tessuto cittadino. Il suo obiettivo è quello di difendere le foreste e forestare le città, nonché applicare il suo modello di Città Foresta[5], laddove possibile. Attualmente la Stefano Boeri Architetti ne sta progettando una a Shijiazhuang, in Cina. Il progetto viene presentato come «un prototipo di una generazione di città piccole, compatte e verdi» composte da edifici simili al bosco verticale. L’attuabilità e la replicabilità di questo modello è tutto da testare, ma la centralità che viene data alla natura e ai suoi ecosistemi fa ben sperare.
L’impressione è dunque quella che, per rimediare ai danni che abbiamo perpetrato nei confronti del pianeta, il modo più efficace sia quello di ridare spazio alla natura stessa, affidandoci a tutti quei meccanismi che permettono la vita sulla terra.
Fonti:
[1] United Nations report, Urban and Rural Areas 2009[2] Katharina Buchholz, How has the world’s urban population changed from 1950 to today?, World Economic Forum, 2020
[3] Guidicini P., Il Rapporto Città-Campagna, Editoriale Jaka Book SpA, Milano 1998, p. 33
[4] Per saperne di più: Isola di calore: come ridurre l’effetto del surriscaldamento urbano, InfoBuildEnergia
[5] Stefano Boeri, Città Foresta, Stefano Boeri Architetti, 2015