Palin parla con Diletta Bellotti, un’attivista per i diritti umani che da qualche anno a questa parte si batte per i diritti dei braccianti parlando degli abusi perpetrati nei loro confronti nelle campagne italiane.
Lo scorso ottobre è uscito il V rapporto sulle agromafie e il caporalato redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil. Dal documento si evince che in Italia sono circa 180.000 i lavoratori soggetti a sfruttamento lavorativo e caporalato, ed è stimato che le agromafie nel nostro paese fatturino circa 25 miliardi di euro ogni anno. Visto il relativo poco spazio di cui questo argomento gode all’interno del dibattito pubblico, abbiamo deciso di parlarne con qualcuno che da anni fa di questo tema la ragione del proprio attivismo. Per questo, a pochi giorni dal 21 marzo, giornata della memoria in ricordo delle vittime delle mafie, Palin ha deciso di incontrare Diletta Bellotti, una giovane attivista romana che ormai da anni si batte per fare luce sugli sfruttamenti e le violazioni dei diritti umani che macchiano i campi italiani, da nord a sud, e di conseguenza il cibo che arriva sulle nostre tavole.
Dopo essere entrata a diretto contatto con la situazione dei lavoratori bracciantili vivendo per un breve periodo nell’insediamento informale di Borgo Mezzanone in Puglia, Diletta Bellotti ha deciso di impegnarsi per dare visibilità alle loro lotte e alle ingiustizie di cui sono vittima. Questo impegno ha inizialmente preso la forma di una contestazione portata avanti in diverse piazze italiane, chiamata Pomodoro rosso sangue. La protesta faceva leva sul forte impatto visivo e simbolico generato dal morso dell’attivista ad un pomodoro il cui succo, mescolato a sangue finto, colava macchiando di rosso la bandiera italiana dentro la quale era avvolta. L’impegno politico di Diletta Bellotti oggi si concretizza attraverso contestazioni pubbliche così come nell’attivismo che porta avanti quotidianamente facendo luce su questi temi tramite i suoi canali social, ricordandoci che il cibo è politica.
I ragazzi e le ragazze dell’area socio-politica di Palin l’hanno contattata per una breve intervista in cui ci racconta la sua storia da attivista e la situazione attuale dei lavoratori bracciantili in Italia.

Cosa ti ha portato a diventare un’attivista e a focalizzarti in particolare sulle lotte bracciantili e l’agro-mafia?
L’analisi post-coloniale: mi ha reso spietatamente chiaro il fatto che fosse necessario per me essere attiva nella mia comunità. Ci ho messo un po’ a capire quale fosse la mia comunità: a chi e cosa appartenessi. Non ho saputo rispondere, quindi ho cercato di capire cosa nella mia quotidianità dessi per scontato, in termini pomposi: cosa non avevo ancora de-costruito. È lì ho trovato nel mio portafoglio il santino del cibo. Di cui sapevo poco o niente: chi lo coltivava? Chi lo trasportava fino ai supermercati? Nel rispondere a queste domande, ho infine trovato anche quella ricercata comunità: erano i marginalizzati, i reietti, gli invisibili, e il mio tempo e la mia energia apparteneva alla terra.
Spesso quando si parla di caporalato si tende a criminalizzare esclusivamente i caporali senza cogliere gli aspetti sistemici che alimentano il fenomeno. Come vedi il rapporto tra il caporalato e la Grande Distribuzione Organizzata?
La GDO ha il potere di influenzare tantissimo il mercato agroalimentare: i suoi prezzi e le sue regole. Sull’argomento vi consiglio il libro di Stefano Liberti e Fabio Ciconte ‘il Grande Carrello’. Il sistemo del caporalato emerge e si rafforza nell’informalità del mercato e del lavoro: il problema mafioso non si può , a mio parere, tamponare solo mettendo in carcere chi si muove nell’illegalità, ma estirpando il sistema che permette a quell’illegalità di fiorire.
Nelle tue performance in piazza hai puntato sullo sgomento associando simboli nazional-popolari, come la bandiera e il pomodoro, al sangue dei braccianti. Come pensi si possa superare l’omertà e l’indifferenza ancora presente verso questi temi?
Non so perché vengono sempre chiamate performance, mi sembra che sia un modo per edulcorare un messaggio molto forte: sono proteste. In ogni caso, la consapevolezza nazionale del fenomeno è sempre il primo passo, i cittadini devono ispirare le istituzioni, devono raccogliere le voci dal basso e portarle dove possono essere ascoltate. Devono fare di tutto affinché questo succeda.
Come pensi sia cambiata la condizione dei braccianti e delle loro lotte alla luce della pandemia?
È peggiorata, indubbiamente. La pandemia ha acuito la povertà e la marginalizzazione di tantissime persone, ma ha anche fatto luce su quali sono i lavori essenziali: chi regge la nostra economia. A questo riconoscimento, devono seguire dignità e diritti.
Cosa si può fare, sia livello individuale che istituzionale, per contrastare le agro-mafie?
A livello individuale, si deve sostenere le proposte di contrasto del fenomeno agromafioso, parlo di realtà agricole di resistenza come NoCap. Dalle istituzioni bisogna pretendere sempre più strumenti per il contrasto delle infiltrazioni mafiose nell’agricoltura e il supporto alle piccole realtà che rifiutano il metodo mafioso.