La soglia tra ‘natura umana’ e ‘norma umana’ si apre al passaggio di un grande artista: Nito Contreras. Lui stesso va alla ricerca delle nostre radici ‘simboliche’ per ritrovare la sacralità perduta, la natura che abbiamo soppresso per erigere la norma a suo discapito.
L’antropologia si occupa delle radici dell’essere umano, come individuo e come aggregato, e si lega all’arte nel momento in cui artisti come Nito Contreras scelgono di indagare le origini di tali connessioni ancestrali. Ma per arrivare a questa conoscenza è necessaria, secondo l’artista galiziano, un’azione di costruzione-decostruzione del territorio, per conoscerlo, de-costruirlo e portarlo fuori da quelle che sono oggi le architetture turistico-spettacolari. Afferma l’artista:
L’uomo inizia a fare arte quando si ritaglia uno spazio geografico e costruisce il suo habitat (casa). Spazio e tempo sono i suoi alleati. […] Rilevare è venire a conoscenza, raccogliere dati per delineare, descrivere e rappresentare qualcosa in un luogo determinato.[1]
Contreras traccia il suo pensiero attraverso delle ley-line (linee temporali o punti geografici che hanno implicazioni spirituali, luoghi dove si trovano megaliti o siti religiosi) ed è per lui fondamentale un contatto fisico con il territorio metropolitano, come nel caso della sua opera Nemeton, sul territorio di Roma. Il Nemeton è per definizione un luogo sacro che accoglie in sé un potere energetico-cosmico. Questa è la scelta di partenza di Nito Contreras nei suoi rilevamenti, alla ricerca dei Nemeton di Roma, per tracciare la sua psicogeografia, il territorio psichico e allo stesso tempo fisico ed emotivo. Ed è proprio su una cartina di Roma che Contreras individua i quattro assi del suo Nemeton.

Finalmente avevo la possibilità di andare oltre il genius loci, spostarmi ed esplorare il mio universo ma altri universi fuori di me, nel socius, nella città.
Attraverso le diagonali che tagliano il centro della città, e allo stesso modo attraverso dei cerchi che inglobano aree della città, Contreras dà vita alle connessioni di queste architetture tra loro distanti. Si crea un contrasto tra l’individuazione di edifici simbolo del potere e luoghi sacri, luoghi di culti religiosi, come il tempio di Minerva. Una ricerca, questa, che getta uno sguardo sulla natura del nostro territorio e sui suoi influssi su di noi. Ciò che alimenta questa ricerca è l’interesse fisiologico della natura del luogo:
Automaticamente, dopo segnalazioni (scritte), rilevamenti, derive, nasce per me un’opinione o meglio un’interpretazione degli eventi con un senso che rimanda al registro delle emozioni. L’emozione è la messa in moto di un desiderio, del desiderio di creare. È un flusso dinamico da prendere in considerazione in quanto scaturisce dall’evento stesso. […] I flussi sono traiettorie di movimento-spostamento del corpo sociale in un luogo determinato che hanno sempre un’origine. Così mi ricollego alla scienza del Feng Shui che studia le sorgenti di energia, alle teorie dei campi elettromagnetici di Ernst Hartmann e alla bioarchitettura: questi riferimenti diventano supporti nel fare arte, per creare un legame più stretto tra l’uomo e la terra.[1]

Mentre sembra che il mondo intorno a noi sia guidato e governato da norme che ci separano dalla natura stessa, ciò che l’artista insegue è la sacralità del mondo, la sua natura in contrasto con le nostre norme. Esse ci servono per regolare la vita, ma non sempre vanno di pari passo con la nostra natura, e lì la norma diventa natura degenerata, e quando la natura è degenerata, la norma non dà alcuna garanzia di sostegno, di protezione, di certezze. Dove risiede la norma vi è una soglia, quella di un passaggio che si può scegliere se intraprendere o meno. Proprio da una soglia, quella della chiesa di Santo Stefano Rotondo – un tempio di luce – l’intenzione di ritorno alle origini viene scandita dall’architettura della chiesa, composta da ventidue finestre. La chiesa è così illuminata a seconda degli spostamenti dei raggi. Nel 1968, nei pressi del mitreo, fu rilevato un pozzo, e si scoprì che in un certo giorno dell’anno il primo raggio di sole colpisce una finestra, che lo proietta nel pozzo. La sua funzione astrologica e temporale lega lo spazio al tempo, ai cicli della natura. Ciò sembra essere molto distante dal nostro modo percepire; crea una distanza siderale che non riusciamo a colmare perché per ri-scoprire le sorgenti della nostra vita ci manca il tatto, il contatto con il corpo e attraverso di esso, come direbbe Giorgio Agamben[2]. Quella di Contreras è un’analisi che guarda al rapporto tra individuo singolo, aggregato umano e territorio.
Creando la sua mappa alternativa, Nito Contreras ricostruisce le nostre radici, porta alla luce quelle sotterranee nascoste e mostra quelle che proprio davanti al nostro naso non vedevamo più:
Siamo vissuti troppo a lungo fuori da noi, separati da noi stessi ed è proprio da questa separazione che è venuto il male.[3]
Fonti:
[1]Lidia Reghini di Pontremoli, Antropologia dell’arte presente – Feticci, merci, contraddizioni nell’età delle società globalizzate, Universitalia, Roma, 2018
[2]Giorgio Agamben, Filosofia del contatto, Rubrica Una Voce, Quodlibet Editore, 2021
[3]Guy Debord, Il pianeta malato, Nottetempo Editore, 2007