Caos, il nome greco, χάος (‘essere aperto, spalancato’), indica in genere un’‘apertura’ una ‘lacuna’ nella continuità delle cose: s’intende quindi come esso sia stato adoperato per denominare la gran lacuna originaria, che si poteva pensar preesistente alla creazione dell’universo.
Possiamo legare il concetto di caos a un altro che appare molto diverso, ovvero la durata.
Peter Handke, premio Nobel per la letteratura 2019, in Canto alla durata scrive:
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta
nello sbucciare con cura una mela
nel varcare con attenziona la soglia
nel chinarmi a raccogliere un filo.
Questa dinamica del gesto e dell’importanza assegnata a quest’ultimo appare del tutto arbitraria: è il caso, o caos, di azioni che costituiscono l’orizzonte dell’esistere, eppure ritenuti passi decisivi, delle soglie che ci portano ad attraversare il tempio del ricordo. Tale momento compensatorio della lacuna originaria, da identificare col proprio personale caos, è da considerarsi estremamente prezioso.
Nel testo di Handke assistiamo non a un culto della marginalità, ma a un margine in in cui l’io rivendica la sua centralità. Nulla a che vedere con il rimpianto dei luoghi incontaminati, non depredati dal consumo, piuttosto si parla di luoghi e azioni vissuti come vere e proprie soglie, di eventi percepiti come ‘strappati’ dalla possibile rapina del nulla.
Il primo utensile, in questo senso, per una definizione di caos potrebbe essere proprio l’opposto dello ‘strappare’, ovvero ‘la perdita’, ‘la gettatezza’.
Ma il caos è anche molteplicità, mutamento costante della materia, significati di valore che cambiano e coesistono in stati intermedi. Il caos si riferisce a tutte le costanti tensioni che caratterizzano qualcosa che sta per formarsi e arrivare, come quando si è in attesa che qualcosa scoppi o salti, si pensi a un tappo: essere in attesa di qualcosa che sta per arrivare ma non si sa quando, producendo attesa e confusione. L’attesa stessa diventa durata nel caos delle proprie azioni.
Nell’anno post covid, nel caos delle contestazioni, nelle battaglie per i diritti civili, negli sforzi per affermare una volontà di ritorno all’ordine e alla quotidianità, il concetto di durata nella differenza, di divenire dell’identico nelle sue continue e brulicanti forme, è fortemente intrecciato ai nostri tempi.
Se nulla sembra distinguere all’interno del mare in tempesta della contemporaneità, un reticolo di strade e sistemi intrecciate sembrano proporre nuove soluzioni basate sulla convergenza in un unico punto: la località. Localizzare l’esperienza e di conseguente la cultura, «the location of culture» scriverebbe Homi Bhabha, significa far sì che ognuno di noi sia inserito all’interno di una dinamica relazionale che non escluda, ma integri i saperi. Il concetto di microresistenza locale, di Stuart Hall, ci aiuta ad intendere il valore della nostra durata: una particolare e costante attenzione per ciò che resiste all’assoggettamento, per quelle forme di soggettività capaci di emergere dentro e contro ciò che tende a rimanere indistinto e che hanno la forza di ‘durare’ nella differenza, di riportare alla mente il valore della loro sopravvivenza alla rapina del nulla.
Palin è pronto ad affrontare il suo nuovo viaggio pensando che forse, rimescolando gli elementi e trascinati da nuove correnti relazionali, un altro mare sia in fondo possibile.