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Palin parla con Giorgia Bernardini, creatrice del progetto Zarina, newsletter che affronta tematiche femminili nello sport, e che oggi ci parla del possibile impegno sociale dello sport.

La recente cronaca sportiva ci ha ricordato quanto lo sport sia a stretto contatto con il mondo della politica e di quanto politico possa un diventare un gesto sportivo. Palin ne parla con Giorgia Bernardini, creatrice del progetto Zarina.

Nel caso in cui non fossero bastati gli Europei di calcio, le Olimpiadi ci stanno ricordando quanto spesso lo sport si intrecci con le questioni politiche e sociali del nostro tempo. Gli esempi di prese di posizione nette e gesti politici adottati dalle atlete e dagli atleti olimpici sono numerosi, come Luciana Alvaredo, ginnasta della Costa Rica che ha deciso di inginocchiarsi per solidarietà al movimento Black Lives Matter (contravvenendo al principio di neutralità stabilito dalla carta di Tokyo e rischiando la squalifica), o la decisione della federazione tedesca che ha combattutto l’ipersessualizzazione del corpo delle ginnaste introducendo tute coprenti, o ancora il judoka algerino Fethi Nourine che si è rifiutato di gareggiare contro l’israeliano Tohar Butbul.
Nonostante le Olimpiadi in corso siano forse le più politicizzate di cui si ha memoria, il rapporto tra la sfera politica e quella sportiva sembra non essere ancora abbastanza trattato e compreso.Foto 1: «The Japan Times»
Foto 2: «The Guardian»
Foto 3: «Forbes» 

Per approfondire questi temi Palin ha scambiato due chiacchiere con Giorgia Bernardini, creatrice del progetto Zarina newsletter che parla di sport femminile, nonché giornalista, scrittrice e sportiva.

Ciao Giorgia, raccontaci un po’ come se arrivata a parlare di sport femminile.

Tutto nasce dalla mia esperienza personale: ho giocato a pallacanestro per tantissimi anni, anche a livelli agonistici, e quando ho scritto il mio primo romanzo ho deciso di ambientare la storia all’interno di un contesto sportivo. La scrittura di questo libro è stata quindi un po’ un pretesto per fare ricerca e mi sono resa conto che non riuscivo a trovare storie di sport femminile né in Italia né in altri Paesi. Questa cosa mi ha colpito molto e ho deciso che una volta finito il romanzo avrei approfondito la questione. Così ho cominciato a cercare di creare contatti con riviste, magazine e giornali che scrivono di sport proponendo di parlare di sport femminile, ma con esiti negativi. Visto che nessuno mi dava uno spazio ho pensato quindi di crearne uno da sola. Ho creato Zarina e fortunatamente in poco tempo ho avuto un riscontro positivo, fino ad essere notata da «Ultimo Uomo», con cui ho cominciato a collaborare occupandomi appunto di sport femminile.

Spesso viene detto che la politica debba rimanere al di fuori del mondo dello sport, quasi quest’ultimo fosse un compartimento stagno isolato dal contesto esterno.
Tu che ne pensi? Qual è il rapporto tra sport e politica?

Lo sport, esattamente come molti altri ambiti in cui ci muoviamo come cittadini, come esseri umani, ha valore di fattore sociale totale. Con questa espressione intendo dire che in questo ambiente si ritrovano dinamiche che rispecchiano quelle della società nel suo complesso. Questo lo dimostra, per esempio, il dibattito attualissimo dell’inginocchiamento. Proprio questa mattina ho letto sul «The Guardian» che l’organizzazione di Tokyo 2021 ha vietato ai social media manager di postare qualsiasi foto delle calciatrici che si sono inginocchiate in campo. Le squadre che hanno giocato ieri (21/07/2021 ndr) sono Stati Uniti e Inghilterra. I primi, nella figura di Megan Rapinoe, si inginocchiano dal 2016, praticamente dal giorno dopo rispetto a Colin Kaepernick. Per i secondi, invece, ha un altro significato molto forte alla luce degli episodi di razzismo subiti dai tre giocatori inglesi dopo aver sbagliato i rigori in finale contro l’Italia. Gli organizzatori delle Olimpiadi, non potendo vietare questa cosa, hanno deciso di impedire la distribuzione di immagini di fatto applicando una censura fortissima.
E questo è solo un esempio di come sport e questioni politiche si mescolino. In questo senso lo sport femminile, di cui mi occupo maggiormente, è in rapporto dialogico con quello maschile e lo sport in generale. Dico questo perché chiaramente il discorso che portano avanti le calciatrici a Tokyo non è assolutamente scisso da ciò che è successo all’Europeo il mese scorso, che ha aperto una voragine anche rispetto alle posizioni politiche dei diversi stati all’interno della comunità europea. Per questo dico che la politica non si può scindere dallo sport, anche perché forse è uno specchio, anche più forte rispetto a quello che accade dentro al parlamento. Lo sport non ha filtro, è una cosa che accade davanti a tutti, in diretta.

Quale pensi sia il ruolo che lo sport professionistico possa giocare nel promuovere cambiamenti sociali e dare spazio ad istanze collettive? Quale impatto può veramente avere inginocchiarsi per una causa?

Se noi guardiamo il gesto meramente per quello che è, niente ha significato.
Una manifestazione non ha significato, un’occupazione non ha significato, uno sciopero non ha significato, mettersi le maglie con i segni del sangue dei proiettili durante una partita di WNBA non ha significato. È chiaro che queste cose non spostano niente di fatto. Quello che fanno è semplicemente portare attenzione su qualcosa che sta accadendo e che molte persone vogliono ignorare. L’anno scorso allo US Open Naomi Ōsaka ha indossato a ogni partita alla quale ha partecipato una mascherina diversa con un nome diverso di una vittima afroamericana della violenza della polizia. Quando le è stato chiesto il perché di questo gesto lei ha risposto che lo ha fatto per portare attenzione a quello che stava succedendo. Noi oggi ne stiamo parlando perché qualcuno un anno fa ha incominciato a dire «No, io oggi non scendo in campo». Se non lo avessero fatto i Milwaukee Bucks e poi le squadre di WNBA insieme, ed è per questo che io ti dico che è importante che le giocatrici di calcio a Tokyo portino avanti la battaglia che è stata cominciata agli Europei, la discussione su questi temi sarebbe molto più indietro. Se queste battaglie si portano avanti insieme, chiaramente si crea dialogo. È chiaro che non puoi cambiare tutto il tuo pubblico, però è importante per lo meno instillare una domanda, un dubbio, nella testa degli appassionati che ti seguono. È per questo che era importante che la nazionale italiana si inginocchiasse, perché in questo modo avrebbe dimostrato di non essere nella bolla all’interno della quale vive. Questi sportivi non sono calati nella realtà in Italia, mentre invece Naomi Ōsaka o Megan Rapinoe, che vengono considerate quasi divinità negli Stati Uniti, sono immerse nella realtà perché sanno che fuori da quello stadio loro rischiano grosso per le posizioni che prendono. Il modo in cui loro usano il loro spazio può costruire ponti e aprire porte a chi non si interessa a questi problemi e, parallelamente, rappresentare tutte le persone che sono quotidianamente escluse ed emarginate.

Mi ha colpito molto la notizia di poche settimane fa che un neo-giocatore della Lazio, Elseid Hysaj, è stato preso di mira da molti tifosi laziali per aver postato un video in cui canta Bella Ciao, sono addirittura arrivati ad appendere uno striscione con scritto «Hysaj verme, la Lazio è fascista».
Al di là di questo episodio, come spieghi questa reticenza a prendere posizioni politiche all’interno degli ambienti sportivi in Italia?

Io ho riflettuto molto su questa vicenda. Prima di tutto sono certa che il giocatore della Lazio non avesse idea del significato politico di quella canzone, che ormai è ascoltata e riprodotta in giro per il mondo in tutte le versioni possibili. Lui lo ha fatto in maniera completamente scevra da ogni significato o posizione politica. Quello che è successo con la Lazio invece è uno spiacevole inconveniente che mette in luce ancora una volta quanto fascismo e quanto razzismo ci sia all’interno del calcio. Il problema però non è il pubblico, il problema per me sono le istituzioni. La società sportiva della Lazio ha dichiarato con una nota che prende nettamente le distanze da chi vuole strumentalizzare per fini politici questa vicenda.
Punto uno: prendere le distanze via stampa ormai oggi non vale niente, prendere distanze oggi significa chiarire la posizione politica della squadra, dichiararlo anche sui social media e allo stadio. Continuando si legge «non ci faremo intimidire da chi usa toni violenti e aggressivi, per loro non c’è alcuno spazio nel nostro mondo, che invece è ispirato ai sani valori dello sport». Ecco, questa affermazione è falsa. È falsa perché per queste persone c’è spazio allo stadio. Queste sono le persone che pagano i biglietti quando vanno alle partite, sono le persone che comprano le birre quando sono allo stadio, sono le persone che pagano i bus per andare a vedere le partite in trasferta. Se non c’è spazio per queste persone, allora non glielo dai neanche all’interno dello stadio. C’è molta paura da parte delle istituzioni di prendere posizioni nette. Non dobbiamo scordarci che si, sono squadre di calcio, ma sono anche società, strutture sociali ed economiche che prendono soldi da chi va vedere le partite.

Molti ambienti sportivi purtroppo riproducono stereotipi tossici che possono avere, soprattutto in età infantile, un impatto molto nocivo sulla percezione e l’accettazione della propria identità. Come si può invertire questa tendenza?

Prima di tutto direi che il cambiamento è nelle mani, per esempio, degli allenatori e delle allenatrici che devono trattare ugualmente, come atleti, uomini e donne a prescindere dallo sport. A livello più ampio, se parliamo di sport professionistico, o sport di persone adulte che di quello campano (faccio questa precisazione perché le donne atlete non sono considerate professioniste in Italia) dipende molto dal lavoro di comunicazione delle società e della stampa.
Ecco, la stampa è un problema grandissimo. Il modo in cui si racconta lo sport maschile e lo sport femminile è estremamente problematico e, come dice qualcuno, le parole sono importanti. Se non partiamo da noi, che le parole dovremmo saperle usare e che siamo pagati per usarle bene, allora c’è un problema grosso. L’altro aspetto è sicuramente politicizzare lo sport in maniera forte, parlarne come qualcosa che va al di fuori del gesto atletico bellissimo, oltre la retorica dello sport che dà i valori della correttezza, dell’essere amichevoli e via dicendo. Questo lo abbiamo assodato, passiamo agli altri valori ora. Domandiamoci perché la nostra nazionale di calcio non ha neanche un giocatore di colore da diversi anni, quando ormai sono vent’anni che i black italians sono in Italia, mentre nell’atletica rappresentano il paese e vincono le medaglie.
Perché nell’atletica è così e nel calcio no? Penso alla polemica che c’è stata il giorno dopo che dall’estero ci hanno dato dei razzisti perché abbiamo solo giocatori bianchi nella nostra nazionale. È un’affermazione forte, me ne rendo conto, ma forse è anche un po’ vera. È strano che questi ragazzi e queste ragazze non ci arrivino in nazionale. Poi magari non ci sono giovani di colore bravi o brave. E allora lì la domanda è l’accesso dei giovani di colore al calcio. è possibile che si tratti anche di condizioni economiche diverse o di emarginazione per altri motivi. Prima o poi questa domanda di secondo livello bisogna iniziare a porsela.

A che punto siamo rispetto alla rappresentazione delle donne e alla narrazione dello sport femminile all’interno del giornalismo sportivo?

La situazione è tragica. È tragica perché l’oggettificazione è molto forte. L’oggettificazione non è solo una giornalista donna che vestita in maniera provocante a bordo campo intervista i calciatori, ma si muove anche su altri livelli, molto meno visibili e molto più morbidi, ma di per sé ugualmente gravi. Federica Pellegrini, per esempio, è ribattezzata come la Divina e, più in generale, se si guarda a come viene raccontato lo sport femminile si trovano spesso aggettivi che restituiscono un’immagine eterea, come se anche nello sport le donne dovessero essere qualcosa di perfetto e intangibile. Nei giorni scorsi si è parlato di Paola Egonu che ha portato la bandiera olimpica alle Oimpiadi e i titoli rimandano tutti al fatto che è una donna lesbica e di colore. Paola Egonu è la pallavolista più forte al mondo, e tanto basta. Se parliamo di sport dovremmo fermarci a questo, il resto non ci interessa. Le donne vengono sempre inserite in questi cassettini per rendere la notizia accattivante, perché sembra quasi che se non sei di colore, bella, divina, campionessa olimpica, allora la cosa non è interessante, a fronte di un’analisi sullo sport maschile che arriva a toccare il calciomercato di una squadra sconosciuta che milita in C2.
Esiste un dislivello enorme e questo ci deve fare riflettere.

Foto 1: «The Japan Times»
Foto 2: «The Guardian»
Foto 3: «Forbes» 

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