«Il genere è il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschile e di femminile, ma potrebbe anche rappresentare lo strumento tramite il quale decostruire e denaturalizzare tali termini».
Judith Butler
Judith Butler è una filosofa post-strutturalista americana che studia e opera (anche) nei campi del femminismo e della teoria queer. L’autrice inaugura il suo percorso di decostruzione del genere nel 1988, con il saggio Performative Acts and Gender Constitution. In particolare, esamina e discute l’ideale freudiano secondo cui il comportamento di una donna lesbica derivi dal modello maschile. Ebbene, l’autrice si discosta e si oppone all’innatismo di genere (che assume, appunto, il modello maschile come norma, la punta della piramide di genere) e teorizza la performatività di genere: come in una pièce teatrale, performare il genere significa creare il genere stesso. Appena due anni dopo, nel saggio Gender Trouble, l’autrice esalta «la vivacità sovversiva e politicamente trasformativa del drag».
Dopo 16 anni, nel 2004, Butler pubblica una raccolta di saggi dal titolo Undoing Gender (Fare e disfare il genere, traduzione a cura di Federico Zappino). La maturità raggiunta le permette di mettere in discussione le sue stesse teorie, senza però abrogarne alcuna. L’autrice indaga il desiderio di riconoscimento delle minoranze sessuali e si pone alcune domande, tra cui:
«Quali vite sono considerate tali?»
Prima di rispondere, occorre fare una precisazione lessicale: il termine gender è un prestito inglese non traducibile in italiano, perché la nostra traduzione esclude una serie di concetti che vanno al di là del significato letterale del termine. Si tratta di quella sfera culturale e sociale, ma anche politica, radicata nel termine inglese, che esprime l’idea di altro, di alterità. Per questo motivo, nei successivi paragrafi, utilizzerò solo la parola gender.
Secondo Butler, il desiderio di riconoscimento si traduce nella vivibilità (la condizione di vita consentita dall’ambiente) a cui ogni individuo aspira, e che è regolata proprio da quel fare e disfare il gender. Questa operazione produce due risultati, opposti: è utile alla lotta per il riconoscimento dei propri diritti, ma «può assoggettare proprio nel momento in cui dà la possibilità di una soggettività». L’autrice, che si muove lungo una linea di matrice idealista, sostiene che non esiste autonomia (personale) senza dipendenza dal riconoscimento da parte dell’altro. Il gender, quindi, non è solo una categoria rigida entro cui normalizzare la sessualità (culturale e biologica) degli individui ‘altri’, è un ampio raggio d’azione individuale e collettivo in cui operano diversi attori che, in ultima istanza, dipendono l’uno dall’altro per ‘riconoscersi’, identificarsi a vicenda.
Ma come si arriva a una reale vivibilità, che non sia libertà e ‘prigionia’ nello stesso momento? Butler scrive:
«Laddove il gender subisce una disfatta, allora inizia a funzionare come strumento emancipativo»
Cioè solo quando il gender, inteso come strumento regolatore delle identità, sarà disfatto. In altre parole, la società deve liberarsi della rete oppressiva dei ruoli sociali e della normalità biologica per dare alle minoranze quello stato di realtà, possibilità e vivibilità che meritano.
Nel sesto capitolo del saggio, l’autrice analizza uno degli strumenti più potenti di riconoscimento sociale dell’età contemporanea: la parentela, le cui pratiche evidenziano ed esprimono le principali forme umane di dipendenza. Il titolo del capitolo pone una domanda più o meno retorica: La parentela è già da sempre eterosessuale? Il matrimonio, ad esempio, è uno degli strumenti più frequenti per la formazione di legami parentali. Se inizialmente non era concesso tra persone dello stesso sesso perché ‘violava’, non ammetteva o non concepiva (biologicamente e culturalmente) la riproduzione della specie umana, oggi lo Stato, con l’istanza delle unioni civili, riconosce questi legami. Pare, però, che l’intervento statale altro non faccia che creare nuove gerarchie ed escludere, ancora una volta, quelle minoranze, alterità, ancor più nascoste, che non rientrano nella possibilità o realtà di riconoscimento del legame matrimoniale. Ogni intervento che non disfaccia il genere, regolato da presupposti esclusivamente eterocentrici, produrrà sempre due facce, tra loro contrarie.
La normalizzazione incessante che viviamo ci definisce ad ogni costo, da qualsiasi parte della linea ci collocheremo. Nell’opera di disfacimento o decostruzione del gender c’è anche la volontà (o lo scopo) di rifiutare che la parentela venga ridotta all’ambito familiare (cioè che si compia o trovi senso solo in nuclei giuridicamente familiari) o che la sessualità sia giudicabile solo in relazione all’istanza del matrimonio. Butler parla, nel suo saggio, di una politica sessuale radicale e progressista, in cui la vita della sessualità e della parentela diventino impensabili, per una comunità, entro i confini di queste norme. Rousseau, nonostante le rigide teorie pedagogiche del suo Emilio, sosteneva che «la libertà non consiste tanto nel fare la propria volontà quanto nel non essere sottomessi a quella altrui».
Fonti:
Judith Butler, Fare e disfare il Genere, trad. italiana a cura di Federico Zappino, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2014.