Il linguaggio è mezzo per descrivere il mondo, ma anche per comunicare e modulare il pensiero. Come noi esso cambia. È il momento di assecondare la metamorfosi del linguaggio verso l’inclusione di chi, per troppo, è stato escluso dai dialoghi.
Il linguaggio è la forma di espressione dell’uomo. Forma che nel tempo è mutata e che è destinata a mutare per sempre, poiché il linguaggio segue i cambiamenti dell’uomo e l’uomo quelli del linguaggio stesso. Il nostro pensiero, infatti, si modula anche in base a come ci esprimiamo, tanto che l’assioma di Sapir-Whorf, o ipotesi della relatività linguistica, afferma:
L’interdipendenza fra pensiero e linguaggio rende chiaro che le lingue non sono tanto un mezzo per esprimere una verità che è stata già stabilita, quanto un mezzo per scoprire una verità che era in precedenza sconosciuta. La loro diversità non è una diversità di suono e di segni, ma di modi di guardare il mondo.
Quindi per pensieri e realtà nuove c’è bisogno di un linguaggio che si evolva, il quale a sua volta provocherà cambiamenti. E oggi come non mai, in un tempo dove tutto si muove con estrema velocità, urge una rinnovata sensibilità nel modo di esprimersi. Questi cambiamenti, potenzialmente, possono imporsi in una lingua e nella società dei suoi parlanti senza troppe difficoltà, o provocare crisi enormi.
Ecco però che vediamo come, nel nostro caso, ci siano scontri continui riguardo a cosa si possa e non possa dire. Lo vediamo ogni giorno, in Italia con le proteste di chi sostiene che non sia più lecito dire nulla, perché il DDL Zan si oppone a un linguaggio diffamatorio; lo vediamo in Ungheria dove viene vietato di parlare di argomenti LGBTQ+ davanti a minorenni.
Tutti questi discorsi si dimenticano però di osservare il punto di vista di chi fa parte di quell’ambiente, di tutte quelle persone che sono membri della comunità LGBTQ+. Non è più il tempo di nascondersi dietro al dito del «io non sono omofobo ma». Anche nei casi nei quali la discriminazione non è intenzionale, rimane però un linguaggio escludente, che dimentica il peso e l’importanza delle parole.
La metamorfosi del linguaggio passa attraverso tutti i mezzi di espressione dell’essere umano, anche attraverso la pubblicità. Questo è il caso di Diesel che, a giugno del 2020, ha realizzato uno spot pubblicitario incentrato proprio sulla diversity inclusion. Diesel, per realizzare un prodotto curato e veramente inclusivo, si è messa in ascolto di chi ‘ne sa di più’, sfruttando le conoscenze e l’impegno di Diversity Lab:
una no profit impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione, favorendo una visione del mondo che consideri la molteplicità e le differenze come valori e risorse preziose per le persone e le aziende.[1]
La campagna realizzata affronta due temi estremamente dibattuti e delicati: la transizione e la religione. Il corto racconta la storia di Francesca, la sua routine nell’osservarsi, cercare se stessa nello specchio, prendere gli ormoni e lentamente iniziare la sua vita libera da ragazza. Francesca però racconta un’altra parte di storia, una storia che, purtroppo, oggi ha del surreale: Francesca prende i voti e diventa suora.
Ovviamente nella storia di Francesca la costante sono i jeans Diesel, che l’accompagnano durante la transizione e fino all’abito da suora. Ma il product placement poco importa in questo caso; importa la scelta dell’azienda di porre attenzione su discorsi che non si vogliono affrontare, dimostrando una forte inclusività.
Il fatto interessante per le aziende è che questo lavoro di inclusione ripaga gli stessi brand, se fatto in modo sincero e limpido. Basti pensare infatti che dalle analisi svolte proprio da Diversity Lab, nel Diversity Brand Summit del 2021, si legge che l’88% delle persone sceglie con convinzione brand che si dimostrano inclusivi, con una conseguente crescita proprio di quelle aziende che dimostrano sempre più impegno sociale.

L’inclusività non è più quindi una questione che riguarda solo chi fa parte delle categorie che spesso vengono escluse, ma inizia a essere un tema sensibile per tutti. Parlare, imparando a usare le parole giuste, dev’essere oggi il motore che promuova una metamorfosi del linguaggio – e di conseguenza della società.
A volte bastano nuovi modi per usare le parole che già abbiamo, per aprire nuovi scenari e raccontare le realtà che per tanto tempo sono state taciute. È il caso di Giovanna Cristina Vivinetto, una poetessa che è riuscita a mettere in poesia il suo percorso di transizione con una sensibilità, dolcezza ed efficacia sorprendenti. Ciò ci dimostra che, spesso, le parole non mancano, basta imparare a utilizzarle nel modo adeguato o dare loro nuova vita. Noi parlanti possiamo decidere come modulare la nostra lingua e il nostro pensiero, così da creare una società che riconosca come normale, ciò che si è per tanto tempo voluto definire «contro natura»[2].
Un corpo transessuale come
si lega a un altro corpo?
Mi chiedi se un corpo transessuale
può star bene tra le braccia
di un corpo normale. Può trovare pace
una pelle disforica al contatto
di membra sane? Può contagiare?
M’incalzi se un corpo diverso può
far ridere o ammutolire. Se la vergogna
è tutta dentro o in qualche punto
traspare, come una voglia screziata.
Bisogna stare attenti alle deformità,
chiedere perdono per l’imprevisto?
Mi chiedi. Ti infuri, anche.
Non rispondo.
Il fatto è che un corpo come il mio
quando s’incastra a un altro corpo
non è più transessuale. Quando
si lega a una carne che accoglie
forse non è più nemmeno un corpo.
[…]
Fonti:
[1] Dalla sezione About us del sito Diversity Lab, ultima consultazione 29/06/2021
[2] Giovanna Cristina Vivinetto, Noi eravamo fra quelli chiamati, da Dolore minimo, Interlinea, Novara 2018
Emanuele Banfi, Nicola Grandi, Lingue d’Europa, Carocci editore, Roma 2014
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