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Andrea Zanzotto è il poeta dell’io Dietro il paesaggio (1951) che si cala, cela e nasconde nella purezza e nel contatto con le origini. Cosa comunica la sua poesia nel momento in cui il paesaggio, la società, i rapporti tra le persone cambiano? Il suo invito a produrre nuovo linguaggio si traduce nell’invito a pensare e formulare un nuovo modo di relazionarsi alla natura e all’ambiente che ci circonda.

A che servono i poeti nel tempo della povertà?

Le potentissime parole di Holderlin tornano a risuonare con prepotenza nelle società tecnomorfa di oggi. Un «regno di mercanti»[1], direbbe Hegel: un puro calcolo prosaico di una civiltà in cui l’uomo diventa appendice della macchina, mentre il «vivere poeticamente» sembra destinato ad avere sempre meno spazio. Ciò che rimane sono gli abitanti di un desolante paesaggio della tecnica, e vengono in mente i protagonisti del paesaggio della Waste Land di Eliot: essi non pensano ma calcolano, non vivono ma semplicemente funzionano come macchine anonime, spersonalizzate. Tuttavia, il vivere poeticamente si sottrae a questa logica prosaica e di calcolo perché esso cerca di ritagliarsi spazi poetici di esistenza sognante, estraniandosi dalla logica di una civiltà meccanica.

Un sentimento simile è quello di Andrea Zanzotto (1921-2011), testimone della mutazione del paesaggio dopo il boom economico di fine anni ’50 del secolo scorso, un cambiamento che lascia intravedere delle trasformazioni (nel suo caso siamo a Pieve di Soligo, in Veneto) sufficienti per scatenare in Zanzotto un sentimento nuovo nel rapporto con la natura. Prendiamo un caso specifico, Al Mondo (La Bealtà, 1968)[2].

Scritta all’indomani del boom economico, in piena denuncia del mondo falsificato e della civiltà dei consumiLa Beltà è un libro che contiene il rumore del mondo: il cicaleccio televisivo ha ormai occupato gli spazi di silenzi necessari a una vera comunicazione umana (impossibile non menzionare la produzione della Scuola di Francoforte, ma anche Sartre, Foucault, Sterne, Habermas)[3], e Zanzotto rintraccia l’esistenza di questo onnipresente brusio in ogni segno concreto.

Zanzotto sceglie di percorrere le vie praticabili del paesaggio e della convenzione letteraria, ma entrambe rivelano una delusione, poiché tutti i significati sembrano perdersi. Secondo il poeta non resta che appellarsi al mondo, a un paesaggio che è già perso ma su cui insistere per ritrovare e ritrovarsi:

Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»
un po’ più in là, da lato, da lato.

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.

Su, Münchhausen.

Insistendo sulla capacità dell’individuo di esistere e sulle potenzialità del linguaggio ridotto a elementi primari (ex- de- ob), Zanzotto tenta di stabilire nuovi rapporti tra l’io poetante e un paesaggio trasformato. Anche quei «super-cadere» e «super-morire» testimoniano il nuovo ‘principio di velocità’ del tempo del capitalismo e delle merci, a cui comunque la voce del poeta partecipa, costruendo ‘senso’ e articolandolo attraverso l’atto creativo (Ποίησις).

Münchhausen, espressione della condizione patologica di chi inventa storie per compatirsi davanti agli altri, rivela il profondo vittimismo in cui siamo immersi. La divisione tra noi e la Natura sembra essere in stretta connessione con la condizione di vittimismo di un mondo in cui ognuno di noi, una volta posto, è gettato in mezzo alla colpevolezza degli altri (la geworfenheit di Heidegger). Zanzotto si fa precursore, in seguito alla distruzione e alla rimozione di un rapporto autentico tra l’io poetico (l’io intimo di ognuno), e la Natura (il mondo che cela e nasconde il sotterraneo), di una condizione di esclusione dal mondo del poeta: si rifugia nella degenerazione del linguaggio per cercare nuove possibilità, le quali corrispondono a tutto ciò che esiste sotto la terra della propria coscienza, in continua mutazione[4].


Fonti: 

[1]Altra espressione di Holderlin. vd., F. Holderlin, Tutte le liriche, Einaudi, Torino, 2015
[2]Zanzotto A., Tutte le poesie, a cura di Dal Bianco S., Mondadori, Milano 2011.
[3]Vd. tra tutti, Adorno, Horkeimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 2015
[4]Vd. Deleuze G. e Guattari F., L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2020

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